Se siete tra i tanti (ma non ancora tantissimi) italiani che hanno ricevuto la busta arancione, è probabile che possiate anche essere tra coloro che sono rimasti (negativamente) sorpresi di quanto andranno a percepire di pensione. E proprio questo era probabilmente uno degli auspici del nuovo strumento di informazione/comunicazione dell’Inps: mettere con le spalle al muro il lavoratore, e indurlo a capire cosa fare oggi, per permettere domani di poter conservare il proprio tenore di vita o, per lo meno, falcidiarlo il meno possibile.
Un suggerimento, quello di cui sopra, che vale non solo per chi si è spaventato dinanzi all’esiguità della pensione indicata in busta arancione, quanto anche per chi ha ricevuto dalla stessa busta arancione informazioni rassicuranti: nei suoi conteggi, infatti, l’Inps tiene conto delle stime ufficiali di crescita del Pil della Ragioneria generale dello Stato, che stima una crescita media dell’1,5%, senza tener conto della recente recessione. Insomma, considerato che la media quinquennale del Pil è il moltiplicatore dei contributi dei lavoratori, bisognerebbe drizzare le antenne: un punto percentuale di Pil in più o in meno determina pensioni differenti fino oltre il 20 per cento.
Che fare, dunque? La risposta è una sola: smetterla di illudersi che la pensione obbligatoria andrà a conservare il proprio tenore di vita, come accadeva un tempo con il vecchio sistema, e organizzarsi con contromisure che sono ora indispensabili. Dunque, risparmio e ancora risparmio, da iniziare – ove realizzabile – il prima possibile, onde evitare di giungere tardi all’appuntamento con la pensione integrativa.
Naturalmente, come sottolineammo non troppo tempo fa, i calcoli per poter comprendere quando versare, in cosa versare e quanto versare, non sono facili. Uno spunto di partenza è tuttavia ben valido: per costituire una pensione integrativa occorre partire presto, meglio se prestissimo: chi infatti versa poco o tardivamente, si accorgerà ben presto di quanto sarà impossibile garantirsi rendite pensionistiche degne di nota. A complicare il tutto, le incognite future relative a possibili fasi di disoccupazione, valutato che la maggiore flessibilità ora in atto nel mondo del lavoro non può certamente portare a escludere periodi di mancate contribuzioni.
In tal senso, qualche giorno fa il quotidiano Il Sole 24 Ore (9 maggio, firma di Marco lo Conte) ha prodotto alcuni interessanti esempi. Si ipotizzi, come fattispecie d’esame, la posizione di un impiegato oggi 35enne che lavori fino ai 70 anni e accumuli 40 anni e 3 mesi di contributi di primo pilastro. In caso di crescita media del Pil dell’1% e di un aumento della retribuzione dell’1,5% sopra l’inflazione, ricorda il quotidiano, l’impiegato può puntare a una pensione pubblica vicina al 77% dell’ultimo stipendio. Niente male, dunque. Ma attenzione: cosa accadrebbe se dovesse restare disoccupato per due anni? “A pari condizioni” – afferma il quotidiano – “il suo tasso di sostituzione scenderebbe al 74,18%, quasi il 3% in meno. Cinque anni in meno abbassano il tasso di sostituzione al 69,81 per cento. Da notare che all’aumento degli anni di non contribuzione si allarga la forbice”.
Di qui, la necessità di assumere un atteggiamento da formica e, per quanto possibile, farlo il prima possibile. Il quotidiano ha in merito chiesto a Epheso, società di software specializzata in tools previdenziali, di effettuare alcune elaborazioni, scoprendo che per l’esempio rappresentato dal 35enne, nel caso di lavoro standard e continuativo per 40 anni – ma con adesione dal prossimo 1° giugno, quindi per 35 anni e 2 mesi – lo stesso “potrà innalzare il proprio reddito pensionistico del 17,94%; in assenza di due anni di contribuzione la percentuale scende di circa un punto percentuale, mentre chi mette in conto di restare senza lavoro per 5 anni – senza quindi versare contributi di primo e secondo pilastro -, vede ridurre l’apporto offerto dai fondi pensione al 15,36 per cento”.
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