Con la recente sentenza 19270/2017 la Corte di Cassazione è intervenuta sull’annoso tema della risarcibilità dei danni per le patologie da amianto, affermando che sussiste la responsabilità del datore di lavoro ogni qual volta risulti che l’insorgenza della malattia sia stata determinata dall’esposizione ad amianto sul luogo di lavoro. L’interessante evidenza è legata al fatto che, per i giudici della Suprema Corte, è possibile applicare il principio «del più probabile che non» al fine di poter “determinare” la sussistenza delle responsabilità e delle risarcibilità. Ma cosa vuol dire?
Per poter cercare di scoprire quali sono le principali valutazioni effettuate dalla Corte giova ripercorrere brevemente la vicenda su cui si sono espressi i giudici della stessa, con la sentenza che trae spunto dai ricorsi formulati da due società che si sono succedute nel corso del tempo nella titolarità di uno stabilimento produttivo presso cui il dipendente (deceduto al momento della sentenza) ha lavorato per oltre 25 anni.
Nei primi gradi di giudizio entrambe le società hanno perso le proprie posizioni, e sono condannate al pagamento dei danni derivanti dall’esposizione del dipendente all’amianto nel posto di lavoro (con conguaglio previsto, naturalmente, nei confronti degli eredi). Le società ricorrenti, censurando la sentenza della Corte d’appello di Firenze, hanno lamentato la mancata applicazione del metodo scientifico nel valutare l’esistenza di un nesso di causa, sostenendo che i giudici di merito si fossero limitati a ragionare in termini di «elevata probabilità logica» e, pertanto, con un criterio che non è quello della «probabilità statistica».
Ebbene, anche in sede di Cassazione gli interessi delle due società ricorrenti hanno dovuto soccombere. I giudici della Suprema Corte hanno infatti affermato che, nell’ipotesi in cui le leggi scientifiche non possano permettere di arrivare a una certezza assoluta nell’individuazione del nesso causale, la regola di giudizio deve essere quella della preponderanza dell’evidenza o, meglio, del criterio «del più probabile che non», da verificarsi non sulla base di una probabilità meramente statistica – quantitativa, bensì in ragione di una probabilità logica, riconducendo pertanto il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma che risultano essere disponibili in relazione al caso concreto. Già dieci anni fa, peraltro, con la sentenza n. 576/2008, le Sezioni Unite avevano avuto modo di esprimersi in tale proposito, affermando un principio molto simile, pur in un contesto molto diverso (la vicenda interessata era quella dei danni da trasfusioni di sangue infetto).
Tornando alla sentenza di qualche giorno fa, i giudici hanno ricordato che essendo stati provati il costante utilizzo sul luogo di lavoro di due agenti patogeni (tra cui, amianto) e la loro idoneità a causare l’insorgenza della malattia, oltre alla mancata adozione delle cautele che avrebbero potuto ridurre l’impatto di tali agenti patogeni, era possibile accertare la sussistenza della responsabilità dei datori, non reputando decisiva la presenza di possibili altre cause.
Infine, la Corte ha sostenuto che non era affatto necessario che i datori potessero prevedere l’insorgere della malattia, essendo sufficiente in questo frangente la prevedibilità di un «generico verificarsi di un danno alla salute del lavoratore». A nulla rileva il fatto che l’amianto è stato effettivamente vietato solamente nei primi anni ‘90, visto e considerato che i rischi derivanti dalla formazione e dalla diffusione da polveri era noto almeno dalla metà degli anni ‘50 dello scorso secolo.
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