Ognuno di noi ha il proprio orologio biologico che scandisce ritmi diversi. Ecco perché riposare 6 ore a notte può essere sufficiente per qualcuno ma non per altri, che non riescono ad aprire gli occhi se non hanno trascorso almeno 8/9 ore tra le braccia di Morfeo. Dormire bene non è una questione di secondaria importanza, soprattutto per chi lavora. Un buon sonno può, infatti, fare la differenza fuori e dentro l’ufficio. A interessarsi della faccenda è stato lo studioso americano Cristopher Barnes, che ha suggerito a leader e dirigenti di azienda di occuparsi maggiormente della qualità del sonno dei loro dipendenti. E di non liquidare come indolenti dormiglioni coloro che fanno fatica a timbrare il cartellino alle 9 esatte.
“Il sonno non è importante solo per i benefici che produce alle aziende e agli individui – ha spiegato Barnes, che è professore alla Foster School of Business dell’Università di Washington – ma perché riduce la probabilità che si verifichino eventi negativi sul posto di lavoro. Le persone ben riposate – ha osservato il ricercatore – hanno una migliore qualità di lavoro perché il loro umore è migliore, sono più concentrate, hanno performance migliori dal punto di vista mentale, sono meno stressate e affaticate. Il sonno inoltre riduce il deterioramento della memoria, gli infortuni sul lavoro e persino i comportamenti non etici”. Detto in parole povere: se dormiamo e ci svegliamo bene, il nostro umore ne risente positivamente e, una volta arrivati in ufficio o in azienda, ci mostriamo più collaborativi nei confronti di tutti (colleghi, capi e clienti) e più produttivi perché svolgiamo meglio le mansioni che ci sono state assegnate. Non solo: dormire bene assicura, di solito, anche un certo benessere mentale che allontana i “cattivi pensieri” che possono indurci ad agire scorrettamente.
Eppure secondo Cristopher Barnes, l’attenzione che i dirigenti di azienda (e i datori di lavoro, in generale) destinano alla qualità del sonno dei loro dipendenti è molto bassa. E la disponibilità a tarare gli orari di lavoro sui ritmi biologici di ogni singolo lavoratore rimane ancora una mera utopia. Che Barnes sembra però suggerire: a suo avviso, infatti, scommettere su orari di lavoro personalizzati, che tengono conto delle necessità di riposo di ogni singola risorsa, potrebbe fare la differenza. A chi, per dire, fa fatica a “connettersi” col resto del mondo prima delle 10, dovrebbe essere concesso di arrivare in ufficio più tardi. Per uscirne ovviamente più tardi del collega che si è seduto alla scrivania alle 9 in punto. Non solo: secondo il professore dell’Università americana, l’affaticamento dei dipendenti – che, come implicitamente spiegato, influisce negativamente sulle loro performance lavorative – è da ricondurre anche alla mole di comunicazioni (telefonate o email) che ricevono fuori dall’orario di lavoro (spesso nel cuore della notte) e che dovrebbero essere bandite. Come di fatto già avviene in alcuni casi.
E non si dovrebbe trascurare anche il beneficio che potrebbe derivare dall’allestimento di spazi (all’interno della sede di lavoro) destinati al relax e al riposo dei dipendenti che potrebbero, ad esempio, schiacciare dei brevi pisolini quando ne sentono la necessità. O l’opportunità di sponsorizzare programmi di benessere (come lo yoga o la meditazione) che riescono a incrementare la qualità del sonno e della vita in generale. Oltre alla più scontata delle “contromisure”: evitare che i dipendenti lavorino troppo a lungo (non oltre le 12 ore giornaliere e le 60 settimanali), mettendo a repentaglio non solo la loro incolumità, ma anche la qualità del lavoro che svolgono.
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