Con la diffusione delle piattaforme tecnologiche attive nel settore della sharing economy, abbiamo già visto come la domanda di beni e servizi abbia conosciuto nuove frontiere. Il volto nuovo di queste pratiche è la cosiddetta gig economy, ovvero l’economia on-demand, nella quale la domanda di prestazioni è fatta su delle piattaforme tecnologiche online e le persone iscritte su queste piazze virtuali possono offrirsi per svolgerle. Queste persone però non sono necessariamente dei professionisti, chiunque può candidarsi per compilare un file excel, dipingere una stanza, portare a spasso il cane. Si diffonde così un nuovo modello di lavoro, grazie all’intermediazione di queste piattaforme che da un lato possono contare su grandi numeri di persone disposte a lavorare anche per poco, dall’altro su clienti disposti anche a pagare il prezzo per l’intermediazione.
I pro della gig economy
I pro di questa nuova frontiera dell’economia sono sicuramente le maggiori opportunità di guadagno per i disoccupati e le persone prive di competenze specifiche o tecniche. Una realtà che permette di comprendere bene cosa sia la gig economy è sicuramente Tabbid, di cui vi avevamo già parlato.
Su questa piattaforma chi ha necessità di un servizio o di un lavoretto può contare su una comunità di persone disposte a svolgerlo dietro un compenso fissato dal committente. Obiettivo della piattaforma è quello di generare valore attorno alla domanda e all’offerta di queste piccole prestazioni.
Secondo uno studio condotto dalla società di consulenza McKinsey, entro il 2025 più di 540 milioni di persone potranno beneficiare delle opportunità offerte dalle piattaforme tecnologiche. Tra questi, almeno 200 milioni di persone inattive o impegnate solo part time, potranno guadagnare di più grazie ai lavoretti offerti su queste piattaforme.
In Italia, secondo la mappatura 2015 delle piattaforme attive nel campo della sharing economy, sono 9 le piattaforme attive nella domanda e offerta di lavoro. La maggior parte facilitano l’incontro tra persone che cercano e offrono piccole prestazioni di lavoro, dietro compenso. In questa categoria ci sono: Chimiconsigli, Gli Affidabili, Makeitapp, Minijob, Solvercity, Tabbid, Upwork o Croqquer. Poi c’è Timerepublik che utilizza un modello simile a quello della banca del tempo: svolgere un lavoretto dà diritto a guadagnare del tempo o crediti. Nella mappatura, capitolo a parte è stato fatto per tutte quelle piattaforme attive nel settore dei Servizi alle persone. Ci sono quelle che aiutano a trovare una baby sitter o una badante, come Le cicogne, Mystarsitter, Oltretata, Sitterlandia. Per cercare un pet sitter invece si può provare su: Animali alla pari, Holidog, Petsharing e Petme.
La questione Uber
Uber è un ottimo esempio per comprendere le caratteristiche della gig economy. La società americana infatti, tramite la sua piattaforma, incrocia domanda e offerta di passaggi auto. Da un lato ci sono i consumatori, dall’altra, nell’ambito del solo servizio Uber Pop, ci sono persone che si mettono a disposizione con la propria auto per offrire passaggi.
Queste persone, nella maggior parte dei casi, hanno altri impieghi o sono disoccupate e svolgono questa attività, tramite Uber, solo marginalmente. Ma le dimensioni del fenomeno, allargatosi in altri ambiti, ha generato già molti nodi da sciogliere, primo fra tutti quello dell’inquadramento di questi lavoratori: autonomi o dipendenti?
Uber da subito li ha classificati come autonomi e continua strenuamente a farlo nonostante negli Stati Uniti d’America, dove la società è nata, siano già iniziate le prime battaglie. In California il tribunale ha accolto la class action di alcuni conducenti per il riconoscimento dello status di dipendenti. La questione potrebbe allargarsi poiché la causa potrebbe arrivare a coinvolgere centinaia di migliaia di conducenti. A Seattle, lo scorso dicembre, il Consiglio Cittadino ha autorizzato i conducenti di Uber e Lyft, altra società attiva in questo campo, a organizzarsi in sindacati per contrattare collettivamente le condizioni di ingaggio.
Anche due studiosi americani si sono di recente interessati alla questione. In una ricerca presentata a Bruxelles hanno monitorato i forum online di Uber e intervistato i conducenti, cercando di esplorare le esperienze di questi lavoratori della gig economy. Le conclusioni cui sono pervenuti i due ricercatori mostrano come i conducenti siano controllati, valutati e monitorati attraverso la piattaforma, che però invoca l’indipendenza degli stessi, generando nei fatti un’asimmetria nei rapporti tra la società e i guidatori.
A partire da questo caso, è quindi evidente quello che stanno gridando già in molti: i lavoratori che ottengono incarichi grazie a queste piattaforme sono privi di qualsiasi garanzia. Dall’altra parte, le grandi società che favoriscono la domanda e l’offerta di lavoro incrementano i profitti, senza ulteriori costi. E così la domanda sorge spontanea: nel futuro ci saranno più freelance, senza un ufficio stabile e orari rigidi, ma saranno effettivamente più liberi?