Secondo l’esperta americana, Peggy McKee, occorre pensare a se stessi come ad un prodotto da vendere e al selezionatore come al potenziale acquirente
Quella del sapersi vendere è un’arte che ogni lavoratore – o aspirante tale – dovrebbe, prima o poi, apprendere. Chi stenta a promozionare se stesso (capita, di solito, ai timidi e agli introversi) e chi fatica a veicolare un’immagine (con)vincente di sé (succede ai cattivi comunicatori) parte, infatti, col piede sbagliato. Il risultato? In un mercato occupazionale sempre più competitivo – scandito da dinamiche, a tratti, aggressive e scorrette – ad avere la meglio potrebbero non essere i candidati migliori; ma quelli che imparano più in fretta a vendere se stessi. Soprattutto in sede di colloquio di lavoro. Ad approfondire il concetto è stata una delle più note Career Coach americane, Peggy McKee, che ha consigliato ai candidati che si preparano ad affrontare la fatidica “intervista” di rispolverare qualche nozione di vendita e di marketing.
Come si fa a vendere se stessi al colloquio di lavoro? Basta attribuirsi le caratteristiche di un vero e proprio prodotto da vendere e pensare al selezionatore (che rappresenta gli interessi dell’azienda) come al potenziale compratore. Che è, però, attratto da un numero elevato di articoli, messi tutti in bella mostra sui metaforici scaffali di un grande supermercato. Perché dovrebbe scegliere proprio noi? A convincerlo dovrebbe essere, ovviamente, la qualità del prodotto (ovvero le competenze di cui daremo prova durante il colloquio), ma a darci una mano potrebbero essere anche una buona pubblicità e qualche mossa ardita. Ma vediamo, più nel dettaglio, qual’è la tesi sostenuta dall’esperta in Risorse Umane. Nella metafora del processo di vendita suggerita da Peggy McKee:
- il curriculum vitae può fare le veci di un buon documento di marketing. Con tanto di numeri, statistiche, cifre e dati riportati per attestare la qualità e la funzionalità del prodotto. Una sorta di “certificato di garanzia”, che dovrebbe spingere il compratore (alias il reclutatore) ad avvicinarsi, senza riserve, alla cassa. Ovvero ad assumere il candidato
- I profili social possono rivelarsi, invece, ottimi strumenti di pubblicità, capaci di attirare l’attenzione di chi li guarda e di suscitare l’interesse di chi vi scova qualche “claim” efficace e brillante. Per questo, è opportuno ribadire l’importanza che deve essere tributata alla cura dei propri profili social. Che, come ormai tutti sanno, vengono abitualmente consultati dai selezionatori che vogliono saperne di più dei candidati che incontreranno in azienda. Una buona pubblicità può fare la loro fortuna; una cattiva réclame segnare, invece, la loro rovina.
- Quanto al colloquio di lavoro, bisognerebbe pensare ad esso come alla chiacchierata che il compratore dubbioso (il reclutatore) intrattiene con l’addetto alle vendite (il candidato). Se sarà in grado di descrivere bene le caratteristiche del prodotto e di enfatizzarne le potenzialità, l’acquirente lo preferirà agli altri. Se, al contrario, si mostrerà incerto e inefficace nell’esposizione, il prodotto resterà fatalmente sullo scaffale. Ma c’è di più: secondo Peggy McKee, a conclusione del colloquio, il candidato dovrebbe provare a “chiudere la vendita”. E sorprendere il selezionatore con una domanda di questo tipo: “Sulla scorta di quanto ci siamo detti, non crede anche lei che sia tagliato per fare questo lavoro?”. E’ una mossa ardita, che reca con sé un certo margine di rischiosità (un reclutatore old style potrebbe non gradire affatto tanta sfrontatezza), ma che secondo McKee vale comunque la pena tentare. Perché potrebbe aumentare del 30/40% le possibilità di essere assunti.
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