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Cosa fare con la laurea in Psicologia: opportunità e sbocchi lavorativi

Chi consegue il titolo non deve necessariamente aprire uno studio privato. C’è chi lavora con gli anziani e chi supporta i minori in tribunale. Ma il mercato non concede troppe chance, ecco perché è bene documentarsi a fondo

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Se aiutare gli altri è la vostra vocazione, una laurea in Psicologia può fare al caso vostro. Ma attenzione: conseguire il titolo non significa essere già pronti ad aprire uno studio privato con tanto di lettino. La strada è lunga e ricca di possibili deviazioni. Ecco perché prima di prendere una qualsiasi decisione, è importante informarsi per bene sul percorso di studi da fare e sugli sbocchi professionali che esso prospetta. Senza trascurare le difficoltà che il mercato occupazionale riserva, da qualche tempo, a chi sceglie di specializzarsi in questo campo. Per procurare benessere mentale agli altri, è indispensabile disporne di una buona dose personale. E accompagnare il tutto con tanto entusiasmo e professionalità.

laurea in psicologia
image by Africa Studio

Scegliere il percorso giusto

Chi è lo psicologo? E cosa fa esattamente? La sua figura è definita dalla legge n. 56 del 1989 che recita: “La professione di psicologo comprende l’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità. Comprende altresì le attività di sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambito”. In pratica, il dottore in Psicologia sceglie di occuparsi del benessere degli altri e di affiancarli e sostenerli in momenti di particolare difficoltà. Ma non solo: la laurea in Psicologia può delineare opportunità diverse a quella della libera professione (che viene scelta nella maggior parte dei casi), spianando la strada ad esperienze professionali di vario tipo. Per iniziare, occorre ovviamente scegliere il percorso didattico giusto che si articola in tre anni di laurea di primo livello (obbligatori) e in due anni (facoltativi) di laurea magistrale. Fornire un elenco esaustivo delle materie che si studiano è impossibile perché ogni ateneo propone la propria ricetta. Ma chi si iscrive ad un corso di Psicologia deve sapere che si troverà a sfogliare libri che non dissertano solo sulle teorie di Jung e Freud, ma trattano anche di filosofia, sociologia ed informatica.

Ma è sufficiente frequentare un corso di laurea triennale per diventare psicologo? No. Chi vuole diventarlo, deve portare a termine un percorso quinquennale (di laurea magistrale), svolgere un tirocinio di un anno e sostenere l’esame di Stato che permette di iscriversi all’Albo. E dopo? E dopo deve decidere cosa fare. Può perfezionare la sua formazione frequentando una scuola di specializzazione, dei corsi ad hoc o svolgere un dottorato di ricerca. Oppure optare per una delle tante scuole di psicoterapia (i cui corsi durano almeno 4 anni) che abilitano ad esercitare la professione. Si tratta di scelte importanti, che devono essere prese con scrupolo valutando una serie di fattori. Ogni storia è indubitabilmente a sé, ma tenere in considerazione l’esperienza dei laureati in Psicologia che, negli ultimi anni, hanno più o meno faticato a trovare un impiego può aiutare a farsi un quadro più esaustivo e verosimile della situazione.

Luci ed ombre del mercato del lavoro

A fornire una mano in questo senso sono i dati di AlmaLaurea che di recente ha intervistato più di 6 mila laureati in Psicologia in tutta Italia, ad un anno di distanza dalla conclusione dei loro studi triennali. Cosa è venuto fuori? Che l’83,9% risultava iscritto ad un corso magistrale, il 29,7% lavorava, il 52,2% non lavorava e non cercava (magari perché impegnato a proseguire gli studi) e il 18% non lavorava ma cercava. Di più: il 63,4% di coloro che si dicevano occupati stava svolgendo lo stesso lavoro che faceva prima di iscriversi all’università, guadagnando mediamente 740 euro al mese. L’indagine condotta sul campione di 4.768 laureati magistrali, sempre ad un anno di distanza dal conseguimento del titolo, ha consegnato risultati non troppo distanti. Il 91,3% di loro dichiarava di aver partecipato ad almeno un’attività di formazione (nel 77% dei casi, un praticantato), il 37,6% affermava di lavorare, il 29,8% di non lavorare e di non cercare e il 32,5% di non avere un impiego ma di cercarlo. Il 32,1% dei lavoratori continuava a fare ciò che faceva prima di conseguire la laurea in Psicologia, mentre il 34,3% aveva iniziato a lavorare a conclusione del percorso magistrale. Per guadagnare quanto? Mediamente 710 euro netti al mese, meno dei loro “colleghi” dei corsi triennali.

Il quadro risultava meno scoraggiante a cinque anni di distanza dalla discussione della tesi: il 75% dei laureati magistrali interpellati diceva di lavorare, l’8,8% di non lavorare e di non cercare e il 16,2% di non lavorare ma cercare. E – fortunatamente – solo il 9% dichiarava di aver continuato a svolgere il lavoro fatto prima di prendere la laurea in Psicologia. Che, detto fuori dai denti, si era rivelata sostanzialmente inutile. E le previsioni per il futuro? Non sono delle più rosee: uno studio condotto da Excelsior e Unioncamere – che ha preso in esame il periodo compreso tra il 2013 e il 2017 – prefigura che la richiesta di psicologi (da parte del mercato del lavoro) subirà una flessione dell’8,9%. In pratica, in questo arco di tempo, verranno assunti poco più di 4.600 risorse, ma a laurearsi saranno in 6.200. L’offerta supererà del 25% la domanda, lasciando a “bocca asciutta” un bel po’ di neo-dottori in Psicologia. Che o ingrosseranno le fila dei disoccupati o dovranno ripiegare su qualcos’altro.

Cosa puoi fare con una laurea in Psicologia

Sforzandoci di vedere il bicchiere mezzo vuoto, cerchiamo di capire cosa può fare chi ha una laurea in Psicologia in tasca. Partendo dal presupposto che più si prosegue lungo il percorso di formazione più si amplia lo spettro di possibilità lavorative, gli sbocchi sono molteplici. Si va dal libero professionista, che ambisce ad aprirsi uno studio tutto suo, alle risorse che forniscono assistenza presso varie strutture pubbliche e private. Qualche esempio? C’è chi si specializza nella branchia della psicologia del lavoro e presta il suo servizio nelle aziende. E chi lavora negli ospedali, nelle scuole, nei consultori, nei centri di accoglienza e nei tribunali (solo per dirne alcuni) per fornire orientamento o supporto psicologico a chiunque ne abbia bisogno. La platea di potenziali clienti è sterminata e trasversale: dagli anziani ai bambini, dagli immigrati agli sportivi, dai diversamente abili alle famiglie in crisi. Senza trascurare la possibilità di spendere e onorare il proprio titolo dedicandosi alla ricerca e alla sperimentazione, all’insegnamento o alla formazione in senso lato.

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