Nel contesto lavorativo può capitare di perdere la pazienza, purtroppo nei casi peggiori può accadere che dalle discussioni si arrivi agli insulti e alle minacce , anche se è sempre consigliabile affrontare i problemi confrontandosi in modo civile. Tuttavia la Cassazione ha stabilito attraverso diverse sentenze che gli insulti o alcune parole di troppo, in alcuni casi rappresentano un reato e in altri non hanno una valenza penale. Esaminiamo nello specifico l’esito di alcune sentenze della Cassazione.
1. ESPRIMERE CRITICHE O TERMINI POCO RISPETTOSI VERSO IL PROPRIO SUPERIORE DURANTE UNA DISCUSSIONE
Mediante la sentenza del 7 maggio 2010, n. 17672, la Cassazione ha stabilito che al di là dell’ ”ineleganza” con cui ci si può rivolgere al capo o ad un collega, in certi casi il turpiloquio può essere un modo per sollecitare il dibattito sul lavoro, potendo, addirittura, stimolare il miglioramento dell’organizzazione aziendale.
Come ha evidenziato la giurisprudenza, può apparire scorretto e disdicevole il fatto che, all’interno di una discussione di lavoro, si usino termini irritanti e poco rispettosi per l’interlocutore e, di conseguenza, controproducenti, posto che la polemica, non consente spesso di trovare soluzioni condivise. Questo non significa, però, che le espressioni utilizzate siano automaticamente dotate di una valenza penalistica. Se il capo ufficio, o il titolare dello studio, non accetta le critiche che gli sono mosse dai propri dipendenti o collaboratori, i quali, per non avere noie all’interno del posto di lavoro, non contestano alcuna decisione, non potrà dirsi dotato di strumenti idonei ad assicurare una efficiente organizzazione della sua azienda.
2. RICEVERE RIMPROVERI OFFENSIVI DA PARTE DEL PROPRIO CAPO
Un’altra sentenza ha riguardato la denuncia da parte di una donna stanca di ricevere rimproveri offensivi da parte del proprio capo, il quale si divertiva costantemente nel farle notare i suoi errori in ufficio con espressioni poco piacevoli. La sentenza della Corte di Cassazione 42064/2007 in questo caso ha dato ragione alla dipendente, la quale ha ottenuto un rimborso di 250 euro più il risarcimento delle spese processuale.
3.USARE ESPRESSIONI IRRIGUARDOSE MA NON MINACCIOSE VERSO UN SUPERIORE
Un altro caso ha riguardato un lavoratore che si è rivolto al proprio superiore con l’espressione:”chi c… ti credi di essere?”. Con questa sentenza i giudici della Cassazione hanno confermato il reintegro in servizio del dipendente di una casa di cura di Napoli che nel 2002 era stato licenziato. La spiegazione fornita dalla Cassazione è stata che le espressioni irriguardose ma non minacciose possono essere reazioni puramente emotive, e pertanto non controllabili nel momento stesso imputato.
4.DIRE “MATTO” AL PROPRIO DATORE DI LAVORO
Secondo la sentenza 17672/2010 invece è possibile dare del “matto” o “pazzo” al proprio capo o al proprio datore di lavoro. Secondo i giudici della Cassazione addirittura questa espressione ha addirittura una valenza “costruttiva”. La sentenza è stata così motivata: “questo modo di esprimersi non ha un valore distruttivo. Nell’uso comune è un modo come un altro di indicare un comportamento da non tenere in ufficio”.
5. I MANAGER E LA “TUTELA DELLA MORALE“ SUL POSTO DÌ LAVORO
Rivolgere insulti alle persone con cui si condivide il posto di lavoro, può essere causa di licenziamento. Tra gli obblighi del manager, infatti, c’è quello di tutelare la “personalità morale” di tutti i suoi dipendenti, così ha sentenziato la Corte di Cassazione nella pronuncia 4067/2008. La dignità di chi lavora per il manager è una sua precisa responsabilità. Si può affermare che per lui sia un dovere punire chi viola la serenità dell’azienda.
6.INSULTARE EPISODICAMENTE IL PROPRIO SUPERIORE
Insultare episodicamente il proprio superiore non costituisce giusta causa di licenziamento, così ha stabilito, infatti, la Corte di Cassazione, con la sentenza n.3042. La Corte si è pronunciata sul caso di una donna che era stata licenziata per aver pronunciato delle frasi offensive nei confronti del suo superiore gerarchico. Il comportamento negativo e irriguardoso della lavoratrice era stato considerato una giusta causa di licenziamento, cioè, come recita l’art. 2119 del codice civile, un fatto di gravità tale da non consentire la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto di lavoro. Una norma, però, che ha un contenuto limitato e che, pertanto, lascia spazio all’interpretazione dei magistrati, che avviene sulla base di una valutazione di diversi fattori. L’orientamento recente, in giurisprudenza, ha stabilito che, per la sussistenza di una giusta causa di licenziamento, i fattori che bisogna valutare sono i seguenti: la gravità del fatto attribuito al lavoratore e le conseguenze che ciò comporta, la circostanza in cui è commesso, il grado d’intenzionalità e la proporzione tra la sanzione inflitta (il licenziamento) e il fatto contestato (il comportamento). Nella decisione dei magistrati della Sezione lavoro della Corte di Cassazione, pertanto, è stata decisiva la mancanza di analoghi precedenti nella carriera professionale della donna, che hanno lasciato presupporre il carattere episodico del comportamento contestato, ritenuto ugualmente grave, ma non così tanto da costituire una giusta causa di licenziamento.
7.LE DISCRIMINAZIONI VERSO UN DIPENDENTE STRANIERO
Un caso che ha dell’assurdo è accaduto in Francia, dove un datore di lavoro ha chiesto a un suo dipendente di cambiare il proprio nome. Il motivo di questa richiesta è dovuto al fatto che il dipendente si chiamasse “Mohamend”troppo arabo per il datore di lavoro. Se il ragazzo voleva mantenere il suo lavoro, avrebbe dovuto presentarsi con il nome Alexandre, molto più francese e più rassicurante secondo il proprietario dell’azienda. Il lavoratore non intenzionato a cedere al ricatto ha denunciato il proprio datore di lavoro, il quale ha dovuto rispondere all’accusa di “discriminazione”. Secondo la Corte di Cassazione nel 2009: chiedere, infatti, a un dipendente di cambiare il nome di origine straniera è da considerarsi un reato.
Tenendo conto delle diverse sentenze della Cassazione bisogna aggiungere che il buon senso ci impone di non generalizzare mai perché ogni situazione va analizzata caso per caso. In ogni caso il rispetto, il senso di responsabilità e l’educazione tra datore di lavoro e dipendente restano elementi fondamentali sul luogo di lavoro per una convivenza civile e per la crescita di un’azienda.
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