L’università italiana non versa in buone acque. A darne conto è il libro “Università in declino. Un’indagine sugli atenei italiani”, a cura di Gianfranco Viesti, che racconta come la vita degli studenti universitari italiani si sia fatta, negli ultimi anni, sempre più difficile. Perché? Perché hanno dovuto pagare tasse sempre più salate per fruire di un numero minore di servizi. Con risultati inevitabili sul fronte delle immatricolazioni che risultano in caduta libera da diversi anni (fatta eccezione per l’ultimo che ha fatto registrare un leggero cambio di passo). Per frenare l'”emorragia” di iscritti – che va a braccetto con l’accesso allo studio negato ad una platea sempre più ampia di neodiplomati – il Governo si sarebbe persuaso ad intervenire. Partendo proprio dalle tasse universitarie.
L’ultima ricognizione dell’Ocse a riguardo, relativa all’anno accademico 2013/2014, ha certificato che in 9 dei 16 Paesi europei censiti, le tasse universitarie non si pagano. Accade in Finlandia, Norvegia, Danimarca, Svezia, Turchia, Slovacchia, Slovenia, Estonia e Ungheria. Ma non in Italia dove le tasse risultano, invece, particolarmente salate. L’importo medio – stimato intorno ai 1.602 dollari americani (più di 1.400 euro) – ci pone, infatti, sul terzo gradino del podio, dietro il Regno Unito che ha le tasse più alte di tutti (quasi 8 mila euro) e l’Olanda (più di 2 mila euro). Da qui la necessità di intervenire, per permettere a quanti più aspiranti “dottori” possibili di accedere all’università. Al vaglio del Governo ci sarebbe una proposta che contempla l’introduzione di una “no tax area”. L’idea è quella di far frequentare gratuitamente i corsi agli studenti che provengono dalle famiglie meno abbienti. Ma ci sono dei criteri da rispettare: la soglia Isee (che, lo ricordiamo, è l’Indicatore della Situazione Economica Equivalente che non riguarda solo il reddito familiare, ma anche gli eventuali immobili o i conti in banca di cui si dispone) non dovrebbe superare i 13 o i 15 mila euro. E gli stessi studenti dovrebbero dimostrare di darsi da fare. Come? Superando un numero minimo di esami o conseguendo un tot di crediti formativi ogni anno. Per i “fannulloni” o i fuori corso, insomma, non sarebbe contemplata alcuna misura di sostegno.
Un’altra ipotesi su cui si starebbe ragionando è quella di aiutare anche le famiglie del cosiddetto ceto medio (con Isee superiore ai 15 mila euro) consentendo loro di scaricare dalle tasse almeno una parte della retta universitaria. Proposte meritorie, che dovranno però fare i conti con la realtà dei fatti. Se la platea degli studenti esentati dal pagamento delle tasse universitarie dovesse crescere, a risentirne per prime saranno le casse degli atenei che potrebbero decidere di ridimensionare ulteriormente la loro offerta didattica e formativa. Non solo: stando alle informazioni raccolte da Gianfranco Viesti nel sopracitato “Università in declino“, non tutte le università italiane sono riuscite a garantire le agevolazioni dovute ai loro iscritti. Per essere più chiari: nel 2013/2014, il 40% degli studenti del Sud risultati idonei alle borse di studio non le ha mai percepite. Perché gli atenei hanno candidamente ammesso di non disporre delle risorse necessarie. Se la misura al vaglio del Governo dovesse tradursi in realtà, le cose per loro (e di riflesso per gli studenti) potrebbero complicarsi ulteriormente. A meno che lo Stato non scelga di correre in loro aiuto, corrispondendo alle università una somma forfettaria per ogni studente esentato.
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