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Badge timbrato dal collega: Cassazione conferma il licenziamento

La Cassazione conferma il pugno duro sui furbetti del cartellino: via libera al licenziamento per i badge timbrati dai colleghi.

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Dei “furbetti” del cartellino abbiamo parlato più volte negli ultimi mesi, al fine di delineare un quadro sempre più completo di un tema che è spesso salito alla ribalta delle cronache mediatiche. Ebbene, oggi vogliamo aggiungere un ulteriore tassello a questo argomento, citando la recente sentenza n. 13269/2018 da parte della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, che ha assunto un atteggiamento rigoroso nei confronti del dipendente che ha attestato falsamente la sua presenza in ufficio attraverso una timbratura del badge effettuata da un collega. Gli Ermellini hanno confermato il provvedimento sanzionatorio del licenziamento, non ammettendo alcun tipo di accoglimento delle lamentele del dipendente.

Cassazione conferma il licenziamento: il caso

Per comprendere quali siano state le valutazioni effettuate dai giudici della Suprema Corte può essere utile riepilogare brevemente il caso su cui la Cassazione si è espressa.

Un uomo, unitamente a due dipendenti, aveva domandato a un proprio collega di timbrare al suo posto il badge identificativo, il cartellino elettronico comunemente usato per poter certificare la propria entrata uscita dal luogo di lavoro. Come da indicazioni del dipendente poi licenziato, il collega aveva timbrato il badge alle ore 11.35, mentre in realtà l’uomo era giunto sul luogo di lavoro solamente alle ore 12.50.

I giudici di merito hanno esaminato il caso sulla base delle giustificazioni rese dal dipendente e sulla base delle testimonianze acquisite in sede processuale, andando così a confermare il provvedimento del licenziamento emanato dal datore di lavoro, ritenendo che tale sanzione fosse proporzionale alla mancanza commessa, che aveva leso il vincolo fiduciario in maniera definita “grave e irrevocabile”.

Le motivazioni della Cassazione

Il dipendente licenziato aveva così proposto ricorso in Cassazione, affermando che la sanzione comminata fosse troppo grave, e non tenesse conto di alcune circostanze determinanti come la propria patologia fisica (poliomelite ad un arto inferiore) e psicologica (ansia e attacchi di panico), oltre alla mancanza di precedenti sanzioni disciplinari e l’occasionalità dell’evento, non ripetuto.

Nonostante tali giustificazioni, i giudici della Suprema Corte hanno rammentato come i giudici di merito abbiano agito correttamente, evidenziando il carattere di “grave negazione” dell’elemento della fiducia, ritenuto essenziale nel vincolo lavorativo, e che il comportamento del dipendente sarebbe stato in grado di ledere in modo irrimediabile.

Gli Ermellini hanno anche rammentato come i giudici di merito abbiano correttamente accertato la portata oggettiva della condotta del dipendente, mettendola in relazione ad alcuni principi valutativi conformi ai valori dell’ordinamento. Ne è scaturito un giudizio di gravità del comportamento del dipendente poi licenziato, con la conseguenza di assumere la falsa attestazione della presenza in ufficio (grazie alla collaborazione di un collega) come in grado di nuocere definitivamente al vincolo di fiducia che lega un dipendente al suo datore di lavoro.

Infine, nelle sue considerazioni i giudici di merito hanno valutato anche i riflessi di natura soggettiva della vicenda, quali le condizioni personali del lavoratore. Tuttavia, al netto di tutto ciò, i giudici hanno comunque ritenuto che il comportamento fosse giudicabile molto grave, e dunque idoneo a rompere in modo irrimediabile il vincolo di fiducia che è sottostante la relazione professionale e, dunque, giustificare la proporzionalità della sanzione del licenziamento, il massimo provvedimento disciplinare.

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