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Dimissioni: come funzionano nella nuova riforma del lavoro

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Nel corso delle ultime settimane abbiamo dedicato ampio spazio alla riforma del mercato del lavoro. Nel dettaglio, ci siamo soffermati a lungo nell’evidenziare i pro e i contro sulla disciplina riformatrice dei contratti di lavoro, sulla revisione delle tutele per i singoli lavoratori, e sulle modifiche sostanziali alle modalità di cessazione del rapporto di lavoro per volere dell’azienda. Cerchiamo oggi di integrare un percorso esplicativo già avviato da tempo sulle nostre pagine, andando a comprendere in che modo varia la disciplina sulle dimissioni.

Il principio ispiratore della riforma. In merito, ad ispirare la riforma è stato un principio fondamentalmente sottoscrivibile, e ben riassunto dalla recente circolare n. 18 / 2012 del ministero del lavoro, con cui vengono fornite alcune utili indicazioni e precisazioni alla riforma Fornero. In particolare, la nuova procedura sulle dimissioni – invero, più complessa e lunga della precedente – sembra essere finalizzata a contrastare “pratiche volte ad aggirare la disciplina di tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo”. Ovvero, in parole meno sintetiche, volta a evitare che il datore di lavoro possa chiudere una relazione con un proprio dipendente evitando di essere assoggettato a quanto previsto nell’ipotesi di licenziamento illegittimo (uno dei pochi aspetti non interessati dalla riforma), mediante una formale dimissione volontaria da parte del lavoratore.

Le ipotesi prese in considerazione della riforma. Due sono le ipotesi assunte in considerazione dalla riforma: la prima fa riferimento al caso più generale delle dimissioni presentate durante il periodo di gravidanza (pertanto, per le sole lavoratrici) e di maternità (eventualmente, anche lavoratori); la seconda fa invece riferimento all’ipotesi più residuale, relativa alle altre cause di cessazione del rapporto di lavoro per dimissione.

Nella prima ipotesi, relativa alle dimissioni presentate durante la gravidanza, il lavoratore prima di consegnare le stesse, dovrà farle convalidare dalla Direzione territoriale del lavoro. Nella seconda ipotesi, relativa al caso residuale, oltre alla convalida da parte della Direzione territoriale del lavoro, sarà possibile procedere alla sottoscrizione – da parte del lavoratore – di una dichiarazione di volontà in calce alla ricevuta di invio della comunicazione che il datore di lavoro è tenuto a fare al centro per l’impiego.

Ma quali sono gli effetti derivanti dagli adempimenti di cui sopra? Il primo e più importante è relativo alla sospensione delle dimissioni finchè non vi è una convalida da parte della Direzione territoriale del lavoro, o mediante sottoscrizione della dichiarazione. In merito, la circolare ministeriale ha affermato come la convalida da parte della Direzione territoriale del lavoro non debba seguire necessariamente delle formalità istruttorie precise, poiché i funzionari dtl dovranno limitarsi – si legge nella circolare – “a raccogliere la genuina manifestazione di volontà del lavoratore a cessare il rapporto di lavoro”.

Se il lavoratore rimarrà inerte, pertanto, sarà il datore di lavoro ad doversi attivare al fine di evitare che il rapporto di lavoro rimanga sospeso. Le modalità di attivazione saranno concretizzabili negli inviti formali al dipendente a convalidare le dimissioni: con l’invito esplicito, scatterà il termine di sette giorni (di calendario) entro cui il lavoratore può revocare le dimissioni. Se non perverrà alcun riscontro, le dimissioni si intenderanno definitivamente perfezionale con il silenzio.

Proprio su quest’ultimo passaggio il ministero ha affermato di poter intravedere il rischio di possibili contenziosi. Proprio per tale motivo, la circolare ricorda come “tale revoca seppur non imposta in forma scritta, è necessario che venga comuna formalizzata” con l’obiettivo di evitare dubbi sulla volontà univoca del lavoratore.

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