Psicologi e sociologi affermano che la disoccupazione causi un profondo abbassamento dell'autostima. Alcuni hanno definito la conseguenza della mancanza di lavoro come la perdita di autofiducia, di autorispetto, senso di inferiorità e perdita di identità.
Perché la mancanza di lavoro porta l’uomo ad essere travolto in meccanismi negativi e distruttivi a livello individuale e sociale? Quali sono i disagi e gli effetti negativi di tutto ciò?
Le conseguenze le leggiamo quotidianamente sui giornali: disoccupati che compiono gesti disperati, imprenditori che si suicidano, uomini in preda a dipendenze da gioco patologico perché non riescono ad uscire da situazioni economiche pesanti. Le discipline psicologiche e psichiatriche mediante i risultati di numerose ricerche empiriche ci permettono di comprendere meglio il problema. Da un punto di vista psicosociologico possiamo affermare che l’individuo tende a costruire una rappresentazione di sé sulla base dei ruoli che sente propri. Sulla base di questi ruoli che l’individuo seleziona all’interno di sè si costruisce la sicurezza in se stessi e altre dimensioni importanti per l’integrazione sociale, mentre dalla sensazione di saper adempiere ai ruoli percepiti come propri si sviluppa l’autostima. Duncan Gallie, docente di sociologia all’Università di Oxford nel libro “Resisting marginalization – Unemployment experience and social policy in the European Union”, risultato di una ricerca condotta nei Paesi della EU ha tentato di misurare gli effetti della perdita del posto di lavoro.
Perdere il posto di lavoro, non avere un lavoro o veder fallire l’azienda in cui si è investito le proprie energie è come perdere il vestito che si porta abitualmente. Spesso in queste situazioni si impongono riflessioni sulla propria situazione, sul perché di una tale perdita, a chi attribuirne le colpe e quali saranno gli scenari futuri. Una serie di domande nascono contemporaneamente: esse coinvolgono l'identità dell'individuo e la sua situazione economica in una spirale di disorientamento cui si cerca di trovare un rimedio. Il disoccupato ha bisogno di molte informazioni su questo suo nuovo “io”.
Una parte di queste informazioni o risposte viene dall’autosservazione e una parte dall'osservazione degli altri. Nel primo caso osservando dentro se stesso un individuo che ha perso il lavoro avverte un senso di incertezza e ambivalenza su come sta agendo o reagendo alla nuova situazione. Nel secondo caso l’individuo percepisce se stesso in base a come viene visto e descritto dagli altri e dalla società. Scaturiscono in tal modo delle problematiche sul come si vorrebbe essere visti, interrogativi su come si è e sulle persone da frequentare e quelle da evitare.
Il profondo malessere e disagio nel disoccupato nasce da fatto che esso è dipendente da come è visto dagli altri e da come percepisce di essere visto. Da un punto di vista psicologico ed economico, chi non ha un lavoro o lo ha perso è in una condizione di dipendenza “costretta”che lo rende vulnerabile agli altri. Possiamo definire questa situazione, una specie di regressione cui l’uomo si sente umiliato nella dipendenza e nel bisogno. Probabilmente ad essere colpiti sono aspetti della personalità più sensibili alle avversità dando vita a fenomeni di angoscia.
Il calo dell'autostima, per un disoccupato, è strettamente legato a una componente della personalità definita "employment status component", cioè quella componente relativa all'importanza che assume il lavoro per ogni singolo soggetto. Ogni individuo, infatti, reagisce in modo differente a situazioni problematiche in base alla propria personalità e in rapporto al contesto in cui vive o ha vissuto.
Esistono, inoltre, delle differenze di genere fortemente legate ad aspetti culturali, che portano uomini e donne a reagire in modo diverso. Questo aspetto lo possiamo facilmente costatare facendo riferimento ai numerosi fatti di cronaca degli ultimi tempi che evidenziano il crescente numero di suicidi maschili legati al fenomeno della disoccupazione. Dal rapporto EURES (Ricerche Economiche e Sociali) riguardante lo studio dei suicidi in Italia al tempo della crisi è emerso che “l’incidenza della componente maschile è del 78,5% contro il 21,5% di quella femminile che ha raggiunto nel 2009 il valore più alto mai registrato negli ultimi decenni, con un indice di mascolinità pari a 364,4 suicidi compiuti da uomini ogni 100 femminili. In costante aumento l’incidenza della componente maschile anche nei tentati suicidi: dopo il “sorpasso” avvenuto nel 2001, quando per la prima volta in Italia i tentati suicidi degli uomini hanno superato quelli delle donne con il 50,2% dei casi contro il 49,8%, nel 2009 i tentati suicidi degli uomini rappresentano il 53,8% contro il 46,2% femminile e l’indice di mascolinità ha raggiunto un valore record pari a 116,4. In sintesi i dati dell’EURES evidenziano “un suicidio al giorno tra i disoccupati e record di casi per motivi economici; maggiore l’incidenza degli uomini anche nei tentati suicidi; incidenza minore per le donne.
Questi comportamenti si spiegano da un punto di vista antropologico e culturale, in modo particolare in Italia e in altri paesi del sud del mondo “l’uomo è colui che porta il denaro a casa e che provvede economicamente alla famiglia”. Tutto ciò accade nonostante anni di educazione alla parità. Invertire i ruoli in famiglia è ancora oggi molto conflittuale. In paesi come Finlandia e Islanda che hanno registrato un forte aumento della disoccupazione maschile e un maggior impiego di donne nel mondo del lavoro si sono riscontrati fenomeni di violenza domestica in crescita. In questi casi, l’uomo oltre alla perdita del suo ruolo di lavoratore sente entrare in crisi anche l’identità di genere trovandosi impreparato nel gestire un nuovo ruolo. Un uomo disoccupato oltre ad andare incontro a un abbassamento di autostima, si sente frustrato, ansioso, depresso e irritabile. Psicologicamente è rinchiuso nei suoi problemi ed evita di condurre una vita sociale per non sentirsi ancor più umiliato dalla sua condizione.
Per le donne il problema della disoccupazione non è meno doloroso, infatti, secondo alcuni dati recenti degli uffici di collocamento italiani il 20 per cento delle donne che lavorano smette subito dopo la nascita dei figli e solo poche riescono a inserirsi successivamente nel mercato del lavoro. Le donne in parte sono più protette dalla perdita di autostima grazie al fatto di dover assolvere anche ad altri ruoli (occuparsi della casa, dei propri familiari, ecc) ma questo non elimina l’insoddisfazione e la frustrazione che esse provano. Per le donne rinunciare al proprio ruolo professionale e alla propria autonomia, quando ciò non avviene per una libera scelta è come perdere una parte di sé.
Le donne differentemente dagli uomini evidenziano invece stati di stress connessi alle difficoltà di poter conciliare lavoro-famiglia per la molteplicità dei ruoli, discriminazioni nell’avanzamento professionale e violenze sui posti di lavoro. Questi aspetti sono emersi da una ricerca dall' Osservatorio nazionale salute donna(O.N.Da) e dal dipartimento di Neuroscienze dell'ospedale Fatebenefratelli di Milano in cui risulta che il 45% delle donne per le ragioni esposte in precedenza soffre di ansia; il 41% di forte irritabilità associata a eccessiva tendenza al pianto e il 39% di insonnia e sindromi depressive per il 20% .
Si può affermare che la disoccupazione strappa all'individuo una serie di sicurezze costruite negli anni precedenti. In questo cambiamento e in questo desiderio di riorientarsi c’è la radice di un disagio che genera risentimento, rabbia nel vedersi sottoposti ad umilianti definizioni che classificano l’individuo come cittadino di secondo rango.
Tutto ovviamente dipende dalla personalità del soggetto, ma in ogni caso è facile che si vengano a creare momenti di scoraggiamento e di tensione anche nella vita di coppia e nella famiglia, soprattutto in presenza di figli. Importante è il rapporto con i figli e il sentimento di perdita di autorità ai loro occhi assume un ruolo importante. I problemi sono più gravi con i figli adolescenti piuttosto che con i bambini più piccoli.
Dal punto di vista economico un uomo che ha perso il lavoro è consapevole delle privazioni che la sua situazione ha portato ai figli e alla moglie.
La perdita del lavoro ha un forte impatto sulla salute mentale e fisica dell’individuo con un conseguente aumento della spesa a carico del Sistema Sanitario Nazionale. Per tale motivo la priorità di uno paese dovrebbero essere quelle di tutelare il benessere dei propri cittadini.
Disoccupazione, flessibilità e precarietà come incidono sulla salute psicofisica degli individui e sulla società?
Esiste una vasta documentazione che spiega l’impatto della perdita del lavoro (o per un imprenditore l’impossibilità di salvare la propria azienda) sulla salute psicofisica dell’individuo e come elevati sintomi di depressione siano fortemente correlati con la disoccupazioni di lunga durata. Questi scompensi tendono ad essere più acuti appunto tra i disoccupati di lunga durata, cioè tra quelle persone che sono senza lavoro da più di sei mesi.
Non dimentichiamo che anche il lavoro precario, flessibile o atipico generano notevoli stati di insicurezza sull’individuo che spesso si traducono in stati d’ansia, irritabilità, frustrazione che in alcuni casi degenerano in atti e comportamenti distruttivi a livello individuale e sociale. Rispetto al genere non vale l'idea che il lavoro flessibile sia più conciliabile con la vita familiare delle donne rispetto a un impiego stabile. Diverse ricerche dimostrano che spesso le donne che lavorano con contratti flessibili si trovano più in maggiori difficoltà di altre perché i contratti a scadenza le obbligano a programmare continuamente l'organizzazione famiglia-lavoro ogni volta che intraprendono un contratto nuovo. Qualche forma positiva si intravede con i contratti di collaborazione, se questi vengono utilizzati in maniera corretta offrendo margini di conciliazione utili.
Altri elementi negativi legati alle dinamiche moderne del mercato del lavoro riguardanti la flessibilizzazione sono: il lasciare tardivamente la casa dei propri genitori, con ripercussioni gravissime sul futuro dei giovani e di un’intera generazione spesso limitata nella proprio diritto di autorealizzazione e nello sviluppo stesso della società. Come conseguenza di ciò abbiamo ad esempio una basso tasso di natalità. In questo sistema vengono travolti anche gli adulti che si trovano a doversi preoccupare per la mancanza di prospettive future dei loro figli. La precarietà della condizione professionale porta con sé anche la precarietà dei sentimenti, infatti oggi, troppo spesso, è diventato quasi vietato legarsi sentimentalmente a qualcuno perché non ci sono prospettive economiche sulle quali fondare un futuro stabile e sereno.
La precarietà ha ucciso i sogni di tutti con conseguenze distruttive sulle persone e sulla società, ma paradossalmente anche sul sistema economico e politico che ha generato tali situazioni con provvedimenti basati unicamente a soddisfare i mercati finanziari. Un sociologo francese, Ehrenberg, nel suo libro “La fatica di essere sé stessi”, ha evidenziato l’idea della continua messa alla prova degli individui sul mercato e la difficoltà che questo comporta per la personalità dei singoli. Con il lavoro, infatti, in passato il cittadino diventava titolare di diritti e faceva il suo ingresso nella vita di un Paese. Ma per far sì che ciò accada anche oggi è necessario che il lavoro abbia delle caratteristiche precise, cioè svilupparsi nell’arco della vita. Le fasi dell’esistenza in passato erano scandite da riti legati a diverse fasi: scuola e formazione, ingresso nel mondo del lavoro e pensionamento. Oggi queste fasi sono spesso fuse e caotiche: formazione e lavoro si confondono e l’individuo deve continuamente reinventarsi.
Considerando il rapporto disoccupazione.. precarietà e salute psicofisica, secondo alcuni studi ci troveremmo di fronte ad un mutamento nelle modalità di strutturazione dell’io. Per riuscire a gestire emotivamente le continue frustrazioni, si costruiscono molteplici personalità: l’io lo si fa dividere, invece di ricercare un’unità armonica. E’ necessario portare alla luce tali problematiche che tutt’oggi, soprattutto in un periodo di crisi nel nostro Paese, vengono sottovalutate, attribuendo molto spesso più importanza alla gestione burocratica del disoccupato piuttosto che a quella psicologica ed umana.
Quali soluzioni si potrebbero attuare per arginare questo enorme disagio sociale?
La prima cosa sarebbe ricostruire un Welfare che assecondi le nuove forme del lavoro senza per questo gettare gli individui nell’incertezza esistenziale. C’è bisogno di uno stato sociale che sia capace di garantire la sicurezza sociale nel passaggio da un lavoro all’altro, permettendo le condizioni minime per progettare serenamente la propria vita.
Gli italiani di recente hanno espresso in rete con oltre sessantuno mila tweet quelle che dovrebbero essere le priorità per il nuovo governo in carica e tra queste spicca al primo il lavoro e il problema della disoccupazione, la crescita economica, la riduzione del carico fiscale, ordine nei conti pubblici e sostegno al reddito delle famiglie e alle imprese.
Tra le altre proposte vi è la riduzione dei costi della politica e il miglioramento dei conti pubblici, come presupposto per una riduzione del debito pubblico. Appare evidente che per la maggior parte degli italiani il problema del lavoro è un emergenza, ci auguriamo che la politica futura adotti un comportamento più deciso e responsabile in tal senso. Ricordiamo che se il lavoro manca, manca l’intero sistema di vita e la crescita di una società.
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