Nonostante siamo nell’epoca del progresso e della globalizzazione, in cui si parla di emancipazione, di diritti e di parità tra gli individui, le donne europee guadagnano in media il 15% in meno degli uomini. Quelle italiane dai dati Eurispes invece il 16% in meno rispetto ai colleghi, con uno scarto annuale medio che si aggira sui quattromila euro.
Si va da un minimo dell’1,7% nelle professioni meno qualificate a un massimo del 20,8% nell’ambito degli operai specializzati. Stessa situazione per le mansioni cosiddette intellettuali, dove la differenza media di reddito arriva al 18,8%, e perfino nelle attività commerciali. Migliore è la situazione fra gli impiegati in cui lo scarto si riduce fino al 3,9% e fra i dirigenti 3,3%.
La rappresentanza delle donne ai vertici delle imprese italiane è ancora bassa: la cosiddetta leadership femminile vale un misero 4% e ci pone in coda alla classifica europea, staccati anche da Bulgaria e Romania.
Il prezzo di essere donna, tra i manager di una piccola o media impresa italiana, sono ottomila euro lordi all’anno di stipendio in meno rispetto ai colleghi. La differenza resta inaccettabile, anche perché il recupero è costato troppo alle donne: il 43% non ha figli.
La quota di dirigenti donne resta inchiodata all’8,5%. Eppure, le top manager ai vertici delle 2.652 imprese italiane generano più ricavi e profitti dei colleghi in vetta alla maggioranza delle aziende.
Il Commissario Ue al Lavoro, Vladimir Spidla, sostiene che il riscatto delle donne nella società europea non è solo una questione etica ma anche e soprattutto pragmatica, perché le donne sono forza-lavoro fondamentale nel mondo della competitività globale e della crisi del welfare, un elemento essenziale per la stabilizzazione della situazione sociale e pensionistica in Europa.
Insomma discriminare le donne oggi è un lusso che l’Europa non può più permettersi. Il ministro delle Pari opportunità si sta adoperando per mettere a punto un piano per la conciliazione tra famiglia e lavoro.
Diversi esponenti politici inoltre ritengono che il sistema sociale italiano non sia in grado di autoregolarsi sul tema della parità uomo-donna e che servano norme transitorie e mirate a favorire le pari opportunità negli incarichi pubblici, che garantiscano una presenza paritaria delle donne negli enti pubblici e nei consigli d’amministrazione delle aziende a capitale pubblico.
Secondo l’indagine Isfol “Maternità, lavoro e discriminazioni”, in Italia il 13,5% delle donne esce dal mercato del lavoro a causa di discriminazioni subite al rientro dal periodo di maternità o per l’impossibilità di conciliare tempi di vita e di lavoro, in assenza di strutture sociali adeguate, o ancora per l’inadeguatezza del partner percepito come aiuto occasionale dal 41% delle intervistate.
A perdere il posto dopo un figlio sono il 12% delle donne. Mentre il 15% d’inoccupate prima della gravidanza non troverà mai più un lavoro a bambino nato.
Per quanto riguarda la leadership al femminile, scarseggiano, nel nostro Paese, modelli femminili equilibrati di successo, nel campo del lavoro. Nel mondo della precarietà finiscono proprio le donne, costrette a contratti instabili più di quanto non succeda ai loro colleghi uomini. Impieghi marginali e contratti di breve durata anche per le più adulte. Tutte con una probabilità inferiore a quella già bassa dei precari uomini di riuscire a trasformare il contratto atipico in un impiego stabile.
Un altro aspetto riguarda le tendenze di una vecchia cultura fatta di stereotipi, che gli stessi media propongono, ad esempio con la pubblicità, dove predominano modelli femminili vuoti che evidenziano esclusivamente bellezza e seduzione,
Da questo quadro emerge una realtà diversa da quella prevista dalle norme legislative che riconoscono diritti e parità, il cammino da fare in questo senso è ancora lungo, perché include un profondo cambiamento culturale che riguarda uomini e donne insieme per avviare un’importante trasformazione per futuro migliore per tutti.
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