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Hostess sì, ma senza velo! Buonsenso o discriminazione?

la Corte d’appello ha ribaltato la sentenza di primo grado ed ha condannato l’agenzia hostess a risarcire la ragazza

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Sara Mahmoud indossa il suo Hijab
Sara Mahmoud indossa il suo Hijab


Nel 2013 l’agenzia di hostess e modelle Evolution Events  di Imola mette un annuncio per cercare una hostess per lavoro di volantinaggio, che possa lavorare per una importante fiera calzaturiera.

La ricerca è rivolta a ragazze di bella presenza (normale, trattandosi di un lavoro di immagine) con capelli lunghi e vaporosi. Sappiamo che normalmente le proposte lavorative non possono discriminare per bellezza o per taglio di capelli, ma ovvio è (inutile forse sottolinearlo) che fanno eccezione lavori di immagine quali attori, modelle e certamente hostess per attività fieristica.

Alle selezioni si presenta anche Sara Mahmoud, giovane e bella ragazza italiana di origini egiziane, che per scelta religiosa (è musulmana) indossa l’hijab (il velo che copre completamente sia il collo che i capelli lasciando visibile solo il viso).
Sarebbe idonea per il lavoro ma trattandosi, come ben specificato dall’agenzia, di un lavoro di immagine che richiede capelli lunghi e vaporosi sembra ovvio che l’hijab è assolutamente incompatibile con la posizione. Tuttavia l’agenzia di hostess non se l’è sentita di far perdere l’opportunità lavorativa alla ragazza e dimostrandosi professionale e corretta ha chiesto a Sara se fosse stata disponibile a lavorare senza velo. Lei ha risposto che lo indossa per motivi religiosi e non lo avrebbe tolto. Scelta legittima da parte sua, ci mancherebbe, ma difficilmente poteva pretendere di andare avanti nelle selezioni per una posizione del genere.

Hostess della Evolution Event (tratta da Facebook)
Hostess della Evolution Event (tratta da Facebook)

Ho sottolineato che l’agenzia si è dimostrata corretta poiché, per stessa ammissione della ragazza in una intervista rilasciata a Repubblica subito dopo i fatti, spesso veniva scartata senza avere motivazioni e poteva solo supporre che il motivo fosse il velo. Questa agenzia invece ha voluto essere trasparente e le ha dato comunque l’opportunità di ottenere il lavoro mettendo anche per iscritto quanto detto.
Ma a Sara Mahmoud essere scartata per via del velo, seppur per una mansione che richiedeva una determinata immagine e tipo di capelli, non è andata bene ed è passata alle vie legali denunciando l’agenzia per discriminazione e chiedendo un risarcimento.

Quando lessi la storia tre anni fa, mi parve evidente quale sarebbe stata la decisione del giudice. Non si trattava certamente di una discriminazione di tipo religioso, questo è evidente poiché l’agenzia era disponibile a farla lavorare indipendentemente dal fatto che fosse musulmana. Non le hanno assolutamente detto che non può lavorare per via del suo credo (che sarebbe stato invece un fatto grave). Semplicemente il problema era il velo, incompatibile con la mansione.

Ed in effetti il giudice di primo grado ha dato ragione all’agenzia mettendo in sentenza la ovvia motivazione: „La prestazione di lavoro non si esaurisce nel distribuire volantini ma nel farlo prestando la propria immagine con le caratteristiche volute dal datore di lavoro“.

Niente di più normale e scontato, ma la ragazza è ricorsa in appello e… colpo di scena, ha vinto. L’agenzia è stata condannata a risarcirla con 500 euro. Roba da poco in termini di denaro, ma se la sentenza dovesse diventare definitiva sarebbe un precedente di incredibile portata per il mondo del lavoro.

Un pastafarisiano
Un pastafarisiano

Chiunque potrebbe pretendere infatti di vestirsi in qualsiasi modo per qualsiasi mansione, adducendo come motivazione la propria fede. I commessi e le commesse di un negozio potrebbero andare a lavorare con lo scolapasta in testa in quanto credenti nel pastafarianesimo (ovviamente è una provocazione, ma rende l’idea), altri dipendenti d’azienda potrebbero presentarsi dai clienti vestiti da hare krishna, senza che i loro capi possano contestare alcunché. Per non parlare di coloro che professano la religione rasta fari, che potrebbero lavorare, anche per mansioni di immagine e di contatto con il pubblico, con la loro tipica pettinatura e magari fumando marijuana (la Cassazione ha già stabilito nel 2008 che per i rasta fari la detenzione e l’utilizzo di questo tipo di droga non può essere reato, in quanto prevista dalla loro religione: “La loro religione lo prevede, aiuta la preghiera e la contemplazione”).

Un gruppo hare krishna
Un gruppo hare krishna

Sempre che in sentenza non si stabilisca che solo la fede musulmana goda di particolari tutele rispetto alle altre, ma dubito che un giudice possa far passare un concetto del genere (questo sì, discriminatorio).

Giusto che ognuno sia libero di professare e manifestare la propria fede religiosa, essere un paese laico e con libertà di religione e di pensiero vuol dire proprio questo. Sbagliato voler imporre la propria scelta agli altri, compresi i propri datori di lavoro.

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