Se non ci fosse la manifattura privata, il nostro settore imprenditoriale sarebbe destinato all’irrimediabile collasso. E’ questo ciò che emerge dalla lettura del 40° Annuario confezionato dall’Area Studi di Mediobanca, che ha passato in rassegna i dati dei 50 maggiori gruppi industriali e finanziari italiani quotati in Borsa.
L’indagine ha rilevato, infatti, che, nel 2014, il fatturato della nostra industria è andato giù dell’1,5%, per effetto del tracollo registrato in Italia (-7,4%) solo minimamente “ridimensionato” dal +1,4% rimediato all’estero. Le cose sono andate particolarmente male ai gruppi pubblici, che hanno perso in un anno il 4,8% del loro fatturato, mentre i gruppi privati sono riusciti a crescere del 2,2%.
Annata felice per il settore della manifattura, che è cresciuto del 5,3%, grazie ai gratificanti risultati ottenuti all’estero; mentre il settore dei servizi e il comparto energetico hanno avuto poco da festeggiare, essendo scesi rispettivamente del 6,2 e del 4,9%.
E che i rapporti commerciali con l’estero abbiano un ruolo focale, è cosa che non è sfuggita agli estensori del documento che, di fatti, hanno osservato: “Chi perde il treno con l’estero perde se stesso”. Nel dettaglio: i gruppi pubblici sono riusciti a produrre fuori dall’Italia il 60% dei loro fatturati, quelli privati il 78,8%, con il picco della manifattura che ha raggiunto il 91,1%. Percentuali ben più modeste, invece, per i servizi (41,5%) e il comparto energetico (58%).
A primeggiare incontrastata è stata, insomma, la manifattura privata che ha letteralmente “sbancato” nell’America del Nord (+10,9%) e ha raggiunto risultati soddisfacenti anche in Asia (+6%). Mentre, neanche a dirlo, le cose sono andate male in Italia (-0,7%), ma mai come nel Centro e nel Sud dell’America (-11,4% in un solo anno).
Ma c’è un altro elemento da attenzionare: nonostante – come messo in evidenza precedentemente – le performance dei gruppi pubblici si siano rivelate non proprio brillanti, essi sono riusciti a “macinare utili enormi”. Tra il 2010 e il 2014, lo studio ha certificato un “incasso” di 46,5 miliardi (27,4 dei quali riconducibili all’Eni), nettamente superiore ai 15,1 miliardi dei privati (da riferire, in toto, al solito settore della manifattura).
E veniamo ai Consigli di amministrazione: l’indagine di Mediobanca ha confermato l’immagine di un Paese non proprio “a trazione giovanile”. L’età media dei “capi” che gestiscono i 50 gruppi industriali più importanti del Paese si aggira, infatti, intorno ai 58 anni. Il cda più giovane è quello di Acea (con un’età media di 48,9 anni), mentre il più anziano quello di Cir (con una media di 62,4 anni). Ancora, solo il 25,9% dei cda è costituito da donne, che faticano, più dei colleghi maschi, ad arrivare in cima: neanche il 10% di loro, infatti, ha raggiunto una posizione apicale.
E se vi state chiedendo quale distanza intercorra tra lo stipendio di un lavoratore “medio” e quello di un dirigente di una qualsiasi delle “big” monitorate dallo studio, sappiate che per raggiungere le somme incassate dal suo capo, il dipendente dovrebbe lavorare ininterrottamente per 36 anni.
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