Il camice bianco del farmacista può suscitare reazioni diverse. C’è chi ci vede la fredda uniforme di un dispensatore di medicine e chi, invece, la candida “divisa” di chi sa consigliare e confortare. Chi sta dietro il bancone non può limitarsi a leggere la prescrizione medica e a consegnare il farmaco al cliente, ma – se interpellato – deve fornire indicazioni e rassicurazioni. Specie a chi tradisce insofferenza o preoccupazione per la terapia che dovrà seguire. Ecco perché, se state prendendo in considerazione l’idea di iscrivervi ad un corso di laurea in Farmacia, non dovete trascurare il fatto che alle competenze tecniche e scientifiche (da cui, ovviamente, non potrete prescindere) sarà opportuno aggiungere anche una spiccata capacità relazionale. Che potrà fare la differenza con la clientela. Chi è a corto di pazienza farebbe, insomma, meglio a dedicarsi a qualcos’altro perché – a ben guardare – fare il farmacista vuol dire anche dare sostegno a chi ne ha bisogno. Ma non solo.
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Cosa si studia all’università nella facoltà di Farmacia
Partiamo dall’università: chi sceglie di iscriversi alla facoltà di Farmacia può optare per una laurea di primo livello (triennale) in Scienze e tecnologie farmaceutiche o per un corso magistrale a ciclo unico (quinquennale) in Farmacia o in Chimica e tecnologia farmaceutiche. La differenza non sta solo nelle diverse offerte didattiche, ma anche negli sbocchi professionali che – nel caso della laurea magistrale – profilano più possibilità. Ma cosa studia esattamente uno studente iscritto in Farmacia? L’elenco delle materie è ampio: si va dall’anatomia umana alla fisica, dalla chimica (generale, organica ed analitica: solo per citarne alcune) alla biologia animale e vegetale, passando per la botanica farmaceutica, la fisiologia, la biochimica e la microbiologia. E non è che l’inizio: il futuro “dottore” in Farmacia dovrà frequentare anche i testi che parlano di farmacologia, tossicologia, patologia generale e terminologia medica o quelli che dissertano di legislazione farmaceutica, farmacovigilanza ed acquisizione di capacità gestionali e relazionali. Senza trascurare l’inglese e l’informatica che lo aiuteranno a cavarsela in molte situazioni.
Si tratta ovviamente di un elenco parziale, riportato solo per dare un’idea di massima a chi sta valutando la possibilità di conseguire una laurea in Farmacia. Che – lo precisiamo sin da ora – non equivale a firmare un contratto che lo porterà a lavorare necessariamente dietro il bancone. Le possibilità sono tante e possono soddisfare (entro i limiti dell’ambito di competenza scelto) le inclinazioni più diverse. Il consiglio è sempre quello di valutare con attenzione i piani didattici proposti dalle varie università per trovare quello che sembra rispondere maggiormente alle proprie aspettative. Partendo magari dalle indicazioni fornite dal Censis che, nel caso delle facoltà di Farmacia, ha promosso a pieni voti l’università di Urbino Carlo Bo, quella di Padova, di Trieste, di Ferrara e di Modena e Reggio Emilia. Mentre ha sconsigliato di frequentare quelle di Siena, Chieti e Pescara, Catanzaro, Bari e soprattutto Messina, che ha totalizzato il punteggio più basso nella classifica nazionale. E dopo? La strada potrebbe rivelarsi ancora molto lunga. Va innanzitutto precisato che il percorso universitario contempla un tirocinio di 6 mesi, da svolgersi presso una farmacia o un’azienda farmaceutica. E che chi aspira a diventare titolare, gestore, direttore responsabile o collaboratore di una farmacia dovrà superare un esame di Stato che abilita alla professione e spiana la strada all’iscrizione all’Ordine.
I dati di AlmaLaurea e le previsioni
Ma cosa deve aspettarsi uno studente iscritto alla facoltà di Farmacia? Le possibilità che trovi un impiego sono alte o lo attendono anni di sfiancante inattività? Dare una risposta a una domanda così impegnativa è, ovviamente, impossibile; ma i dati forniti da AlmaLaurea, che tracciano un quadro indicativo della condizione occupazionale dei laureati in Farmacia, possono aiutare a vederci più chiaro. L’indagine, relativa al 2015, ha certificato che, ad un anno di distanza dal conseguimento della laurea di primo livello, il 32,7% del campione intervistato risultava iscritto ad un corso di laurea magistrale che, nel 41,4% dei casi, frequentava per migliorare le possibilità di trovare lavoro. Il 39,4% dei laureati triennali dichiarava di lavorare, il 24,2% di non lavorare e non cercare (magari perché impegnato a proseguire gli studi) e il 36,4% di non lavorare ma cercare. Tra gli occupati: il 24,4% precisava di proseguire il lavoro svolto prima di iscriversi all’università, mentre il 52,5% di aver iniziato a lavorare dopo la laurea, a conclusione di una ricerca durata 4 mesi. Percependo un compenso che si aggirava intorno agli 890 euro netti al mese (1.013 per gli uomini, 848 per le donne). Percentuali leggermente diverse per i laureati magistrali che, ad un anno dalla discussione della tesi, nel 64,4% dei casi, dichiaravano di aver partecipato ad almeno un’attività di formazione. Stando a quanto riferito da AlmaLaurea, il 53,1% di loro lavorava, il 16% non lavorava e non cercava e il 30,9% non lavorava ma cercava. Ancora: l’8,1% del segmento occupato affermava di proseguire il lavoro svolto prima della laurea, mentre il 77,9% – dopo una ricerca durata quasi 5 mesi – precisava di aver trovato per la prima volta lavoro da laureato. I guadagni? L’importo medio indicato era di 1.200 euro netti al mese, con differenze “di genere” non trascurabili, visto che i dottori riuscivano a mettersi in tasca 1.279 euro mentre le dottoresse dovevano “accontentarsi” di 1.170 euro mensili.
Quanto ai laureati magistrali interpellati da AlmaLaurea a 5 anni di distanza dalla conclusione dell’università, l’indagine ha rilevato che l’83,3% di loro lavorava, il 7,6% non lavorava e non cercava e il 9,1% non lavorava ma cercava. Di più: quasi l’82% degli occupati aveva iniziato a lavorare dopo la laurea, impiegando più di 7 mesi nella ricerca. Mentre l’80,5% precisava di avere un lavoro stabile, che procurava guadagni superiori ai 1.380 euro netti al mese. Con uno scarto tra uomini e donne di oltre 232 euro mensili. Ad esplicita domanda, infine, i dottori magistrali in Farmacia intervistati a 5 anni di distanza dal conseguimento del titolo, giudicavano la stessa laurea molto efficace per il lavoro che svolgevano, nel 92,8% dei casi; abbastanza efficace, nel 5,4% dei casi, e poco o per nulla efficace, nell’1,8% dei casi. L’istantanea scattata dal AlmaLaurea deve essere letta con prudenza. Le stime che incoraggiano a credere che quella del farmacista sia una professione “sicura” (al riparo dal rischio di rimanere disoccupato) vanno, infatti, integrate con altri elementi. Che non possono prescindere dal fatto che anche il settore chimico-farmaceutico ha subito i “contraccolpi” della recente crisi economica. Per quanto uno studio condotto da Excelsior e Unioncamere induca a credere che le possibilità di trovare lavoro, con una laurea in Farmacia in tasca, siano destinate ad aumentare. Alle 5.690 entrate nel mercato occupazionale contate nel 2008-2012, dovrebbero, infatti, seguire i 7.020 ingressi vaticinati dal 2013 al 2017, con un incremento percentuale del 23,4%.
Lavorare in farmacia? E’ solo una delle possibilità
Ma cosa può fare un laureato in Farmacia? Contrariamente a quanto si possa pensare, gli sbocchi che gli si profilano sono diversi. Lavorare in una farmacia, dando prova della conoscenza dei medicinali e della loro posologia, rappresenta infatti solo una delle tante vie percorribili. Tenendo contro, tra l’altro, che si può trovare impiego in una farmacia privata, pubblica od ospedaliera. Anche le aziende farmaceutiche mettono sul piatto interessanti offerte. Qualche esempio? C’è chi fa ricerca nei laboratori, chi diventa direttore tecnico e si occupa della fabbricazione e distribuzione di medicinali, alimenti per l’infanzia, integratori, prodotti dietetici, mangimi per animali e fitofarmaci, e chi si specializza nella valutazione di sicurezza di vari prodotti (tra cui i cosmetici) o nel controllo della loro qualità. Ma non solo: le aziende danno lavoro anche agli informatori scientifici, ai “product manager” (che devono fare leva su una conoscenza approfondita del mercato e del target che intendono raggiungere) e ai cosiddetti “regulatory affairs manager”, che altri non sono se non coloro che devono procurarsi le autorizzazioni necessarie a produrre e commercializzare farmaci et similia. E poi ancora, c’è chi, una volta conseguita la laurea in Farmacia, ha trovato lavoro come educatore sanitario presso strutture pubbliche o private e chi è diventato responsabile di magazzino all’ingrosso (per svolgere bene questa mansione, è indispensabile conoscere a menadito le normative e le prassi di conservazione dei medicinali). Chi ha finito per occuparsi dell’indagine delle acque (di cui deve verificare la conservazione delle caratteristiche fisico-chimiche ed igieniche) e chi ha scelto di prolungare la propria permanenza all’università. Per fare cosa? Il docente, l’assistente o il ricercatore. Non tutti i laureati in Farmacia scelgono, insomma, di indossare il camice bianco.