Al pronto soccorso dell’ospedale San Bortolo di Vicenza, due medici e sei infermieri avevano dato il via a una gara a colpi di aghi. A vincere sarebbe stato colui che avrebbe inserito il maggior numero di cannule di grandi dimensioni (e dunque più dolorose) nelle vene degli inconsapevoli pazienti. Sembrerebbe l’ultimo di una lunga serie di episodi “deprecabili” che hanno per sfondo le corsie di un ospedale, ma prima di giungere a conclusioni drastiche (e di condannare senza appello i protagonisti), cerchiamo di capire cosa può spingere un professionista in camice bianco a “giocare”, in maniera più o meno irrispettosa, con la salute degli altri.
La vicenda, definita scandalosa da molti organi d’informazione (e non solo), è stata denunciata dal Giornale di Vicenza che ha pubblicato gli scambi – tramite WhatsApp – dei sei sanitari “incriminati”. Con grande sdegno dell’opinione pubblica e del governatore del Veneto, Luca Zaia, che ha promesso di portare le carte in Procura. Mentre l’ospedale, che ha aperto un’indagine interna, ha archiviato tutto con due richiami e sei “assoluzioni”. Anche perché – stando a quanto riferito dagli otto operatori del San Bortolo – si sarebbe trattato di un semplice scherzo. “Nessuno ha fatto nulla di sbagliato e la salute e il benessere dei pazienti non sono mai stati compromessi – ha dichiarato il primario del Pronto Soccorso – E’ stato solo un gioco“. Parole che potrebbero indignare i più, ma che (a ben guardare) snudano problematiche e questioni che meritano maggiori approfondimenti. Se non altro perché lavorare in ospedale significa svolgere mansioni scandite da cariche emozionali di grande calibro.
Sia ben chiaro, non vogliamo qui giustificare il comportamento “discutibile” di nessuno, ma solo tentare di capire quali meccanismi possono azionarsi nella psiche di chi trascorre molte ore a contatto con malati che versano in condizioni di salute più o meno gravi. E che spingono necessariamente a fare i conti con l’idea della morte. Studiosi di tutto il mondo si sono dedicati alla questione concludendo che ci sono professioni (come quelle dei medici, degli infermieri, degli insegnanti e, in generale, di coloro che devono prendersi cura degli altri) esposte al rischio della sindrome di “burnout”. Evitando di soffermarci troppo sulla descrizione dei tratti caratteristici di questo disturbo (di cui abbiamo già scritto tante volte), ci limiteremo qui a ricordare che un professionista si sente “bruciato” quando, vinto da un esaurimento emotivo, perde energia ed entusiasmo per quello che fa.
Ma non solo: un altro aspetto importante della sindrome di burnout è quello che riguarda il rischio di “spersonalizzazione”. In pratica, chi deve quotidianamente fare i conti con un carico di emozioni, paure e sofferenze particolarmente pesante può sviluppare una forma di autodifesa che lo porta a mostrarsi distaccato. E’ in questo caso che un medico o un infermiere può diventare cinico e freddo e tradire un’inaspettata indifferenza nei confronti dei bisogni delle persone di cui si deve occupare. E non si trascuri il fatto che lavorare in ospedale non è affatto un gioco da ragazzi. Nei nosocomi, infatti, lo spettro della morte aleggia costantemente intorno, mettendo a dura prova anche i sistemi nervosi più stabili. E c’è di più: come spiegato in un precedente articolo (scaturito, anch’esso, da un fatto di cronaca considerato deprecabile), scherzare tra le barelle non è necessariamente un errore. Né deve sempre essere letto come un’imperdonabile mancanza di rispetto. Quel che forse occorrerebbe fare è destinare maggiore attenzione alla “formazione psicologica” di aspiranti medici ed infermieri. Ai quali, prima di entrare in corsia, dovrebbero essere forniti tutti gli strumenti necessari a renderli professionisti scrupolosi, attenti ed equilibrati.
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