L’utilizzo di parole straniere sul lavoro cresce sempre più, ma sarebbe forse il caso di tornare al nostro amato italiano.
Sta facendo discutere da qualche giorno una proposta di legge fatta da un esponente di un partito di maggioranza sulla necessità di un utilizzo maggiore delle parole italiane in vari ambiti, tra cui quello della comunicazione pubblica della Pubblica Amministrazione e nel settore delle grandi aziende. Il deputato Rampelli sostiene che gli inglesismi siano troppi, e soprattutto siano inutili, perlomeno quando esiste il loro corrispondente italiano. Nella proposta di legge, suddivisa in 8 articoli, ci sono addirittura multe fino a 100.000 euro per chi usa termini stranieri non necessari. Ovviamente un tale divieto non sarebbe per le singole persone ma per, sostanzialmente, i documenti con i quali si comunica al pubblico. Ma perché usiamo tutte queste parole straniere soprattutto in ambito lavorativo? Non potremmo semplicemente riferirci alla nostra amata lingua? Cosa ci impedisce di esprimerci in italiano?
Cosa dice la proposta di legge
Il testo, presentato dal deputato Rampelli di Fdi, non nuovo a queste iniziative, sostiene di fatto l’utilizzo della lingua italiana in un numero sempre crescente di ambiti, pena appunto multe molto salate. Cosa dice la proposta di legge? Vi sono alcuni punti decisamente interessanti. All’Art. 2 si legge ad esempio che “gli enti pubblici e privati sono tenuti a presentare in lingua italiana qualsiasi documentazione relativa ai beni materiali e immateriali prodotti e distribuiti sul territorio nazionale”. Questo perché tali informazioni derivano da “fondi pubblici” (cioè il loro prodotto è pagato dalla collettività, che è italiana). Una cosa molto simile si legge all’Art. 3 nel quale si sostiene che per ogni manifestazione o conferenza pubblica debba essere garantito “l’utilizzo di strumenti di traduzione” allo scopo di una “perfetta comprensione in lingua italiana dei contenuti dell’evento”.
L’Art 5 va ancora più a fondo e vorrebbe intervenire sull’articolo 1346 del codice civile, rendendo obbligatorio l’utilizzo della lingua italiana nei contratti di lavoro: “Il contratto deve essere stipulato nella lingua italiana”. L’Art 6 sostiene che all’interno degli istituti scolastici, “le offerte formative non specificamente rivolte all’apprendimento delle lingue straniere devono essere in lingua italiana”. L’Art 7 istituisce un comitato presieduto dall’Accademia della Crusca e l’Art 8 affronta il tema delle sanzioni (appunto da 5.000 a 100.000 euro). Ma come siamo arrivati a questo punto? Secondo il relatore della proposta di legge vi è un’urgenza, soprattutto nel mondo del lavoro, di tornare all’utilizzo di termini prettamente italiani, quando quelli stranieri non siano strettamente necessari. La ragione che sta dietro sarebbe la poca comprensione dei contenuti da parte soprattutto delle fasce più deboli della popolazione (ad esempio gli anziani). La proposta di legge prende spunto da situazioni come quelle di Francia e Spagna che hanno inserito in Costituzione il fatto di utilizzare la lingua madre “nelle pubblicazioni del governo, nelle pubblicità, nei luoghi di lavoro, in ogni tipologia di contratto, nei servizi, nell’insegnamento nelle scuole statali e negli scambi commerciali”.
Troppe parole straniere
Fuori dalla polemica e detto che la proposta di legge non riguarda certo i linguaggi individuali, è effettivamente innegabile che in molti casi nei contesti lavorativi, anche nei documenti ufficiali e negli annunci di lavoro, si utilizzino termini anglofoni, o direttamente inglesi, per riferirsi a cose e situazioni che potrebbero essere tranquillamente descritte in lingua italiana. Ad esempio: perché diciamo “call” e non “chiamata”? Si dirà che la call è diversa da una chiamata, ma in realtà non lo è. La call si può riferire ad un confronto virtuale tra due o più persone, ma tecnicamente c’è sempre qualcuno che “chiama” un’altra o altre persone. Semplicemente si è stabilito per convenzione che una call è un incontro telefonico o via internet con una persona importante, oppure con più persone nello stesso momento. Analogo discorso può essere fatto con molte altre parole: ad esempio, perché si dice “briefing” quando esiste la parola “riunione”, e perché diciamo “brainstorming” se abbiamo il termine “confronto”? Dire “ASAP” (acronimo di As Soon As Possible) o “il prima possibile” cosa cambia? Benefit al posto di “beneficio”? Alcuni termini sono più complessi da tradurre, ma in realtà c’è da chiedersi se non siamo noi a complicarli. Ad esempio la parola “skills”, tradotta letteralmente significa “abilità”. Certamente nel gergo comune il concetto è più articolato. Una persona “skillata” è una che non solo ha delle abilità, ma anche delle competenze, talvolta delle attitudini. Però le competenze portano abilità e le attitudini pure. Quella persona diventa quindi “capace”. Perché allora non ci riferiamo a lei in questo modo e non chiamiamo le “skills” capacità? Nell’italiano c’è già tutto insomma, ma forse non sempre ce ne accorgiamo. Di esempi come questi se ne potrebbero fare a centinaia, va però capito come siamo giunti ad un sistema del genere, che predilige spesso le parole straniere senza alcuna apparente ragione valida.
Necessità ed ego
E’ evidente, invece, che delle ragioni per l’utilizzo di tutti questi inglesismi ci siano e sono principalmente due. La prima è un qualcosa percepito come una necessità (che poi lo sia è tutto da vedere). L’altra è probabilmente una questione che ha a che fare con l’ego. Nel primo caso, visto che ormai le grandi aziende sono internazionalizzate, la necessità di parlare in inglese si esprime nel fatto che spesso bisogna interagire con persone di altri paesi. Convenzionalmente si usa l’inglese e poi molti termini rimangono nella lingua parlata per banale comodità, ma a volte anche per non perdere l’allenamento. Non è però sempre così, capita infatti che i lavoratori facciano un uso smodato ed improprio di termini stranieri anche perché fondamentalmente ad utilizzarli ci si sente, per così dire, migliori. Si vuole comunicare insomma di essere ad un livello superiore ed allora si fa sfoggio di quelli che la proposta di legge sopra descritta chiama “forestierismi linguistici” anche in situazioni in cui non c’è alcun bisogno di pronunciarli. Fondamentalmente come se si volesse far parte di una sorta di casta, di élite, o perlomeno c’è la volontà di comunicare un qualcosa di simile.
Se nel primo caso si può discutere sull’utilità di una simile pratica (che andrebbe magari limitata, o comunque migliorata, ma non eliminata), nel secondo è chiaro come la stessa sia sostanzialmente inutile quando non dannosa. Un comune impiegato con nessuna relazione all’estero non ha alcun bisogno di fare un uso eccessivo di termini stranieri solamente per far sapere che li conosce. E anche chi le relazioni le ha, non è detto che debba per forza parlare per metà in inglese quando esistono termini corrispondenti in italiano. Pur dovendo mantenere un allenamento, alcune espressioni risultano spesso esagerate. Se poi tutto questo si traduce anche in documenti di vario tipo allora il problema è chiaro che aumenta esponenzialmente.
Concludendo è utile segnalare che dal 2000 ad oggi i vocaboli inglesi nella lingua italiana sono aumentati del 773% (sì avete letto bene). Nel dizionario Treccani su 800.000 parole ce ne sono 9000 straniere. Nel Devoto-Oli, confrontando due edizioni, quella del 1990 e quella del 2022, gli inglesismi sono passati da 1600 a 4000. E’ quindi facile capire come, nonostante alcune categorie di lavoratori abbiano la necessità di utilizzare termini inglesi per farsi capire a livello globale, in molti altri casi questa impellenza non esista e sarebbe quindi il caso di tornare ad utilizzare il nostro vecchio e amato italiano. Il problema è infatti anche culturale, lo sradicamento della lingua è chiaramente qualcosa che non dovrebbe mai accadere. Come al solito la verità sta nel mezzo ed è quindi chiaro come ci voglia un certo buonsenso anche nell’utilizzare le parole straniere nei discorsi quotidiani, principalmente sul lavoro, ma non solo.
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