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Ricercatori: quale destino dopo la riforma

Nei giorni scorsi abbiamo visto protestare numerosi ricercatori insieme agli studenti contro la riforma Gelmini. La protesta ha coinvolto tutti gli Atenei più importanti del nostro Paese. La necessità di una riforma che renda le nostre Università dei centri di eccellenza basati su un sistema  meritocratico, con regole capaci di premiare con equità l’impegno di …

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Nei giorni scorsi abbiamo visto protestare numerosi ricercatori insieme agli studenti contro la riforma Gelmini. La protesta ha coinvolto tutti gli Atenei più importanti del nostro Paese. La necessità di una riforma che renda le nostre Università dei centri di eccellenza basati su un sistema  meritocratico, con regole capaci di premiare con equità l’impegno di studenti e professori  è un processo indispensabile che non può sicuramente essere rinviato.

La nuova riforma nei suoi lati positivi evidenzia alcune importanti novità: abbattimento del sistema baronale e dei privilegi nelle università, più trasparenza nei concorsi universitari, valorizzazione della meritocrazia.

Perché allora i ricercatori e  gli studenti protestano?

Il modo più opportuno per comprendere e giudicare correttamente quello che sta avvenendo  è sicuramente quello di raccogliere informazioni sul problema, per  avvicinarci il più possibile alla verità. Il problema non riguarderebbe solo i singoli aspetti della riforma Gelmini, ma il futuro generale dell’Università.
Su quali punti i ricercatori non sono d’accordo? Quale sarebbe il destino dei ricercatori dopo la nuova riforma?

Con la riforma saranno introdotti per i ricercatori i cosiddetti “contratti tenure track”, tali contratti possono essere di due tipi: contratti triennali prorogabili per soli due anni, per una sola volta, previa valutazione delle attività didattiche e di ricerca svolta, e contratti triennali non rinnovabili. In questo secondo caso, al termine del contratto, se il ricercatore sarà ritenuto valido dall’ateneo potrà essere confermato a tempo indeterminato come associato a condizione che abbia conseguito l’abilitazione per il suo ruolo, cioè se è diventato professore associato tramite superamento di concorso.

In caso contrario, chiuderà il rapporto con l’ateneo.

Se il disegno di legge diventasse attuativo, la differenza dell’Italia con gli altri  Paesi Europei è in questi ultimi si tiene conto dei risultati raggiunti nel periodo ricoperto dal contratto (se i risultati si dimostrano positivi, il ricercatore è assunto a contratto a tempo indeterminato).

Con la riforma Gelmini al termine del contratto, indipendentemente dal merito dei risultati raggiunti negli anni, se non si supererà il concorso bandito per l’abilitazione e per il reclutamento a tempo indeterminato si perderà il posto di lavoro.

Ad oggi, in attesa di diventare professore associato si è comunque ricercatori; con la riforma Gelmini questo non sarà più possibile, con il rischio, diversamente da quanto accade oggi per chi non ottiene la conferma dello status di ricercatore, di ritrovarsi sulla soglia dei quarant’anni senza alcun incarico e  dover ricominciare un percorso di lavoro nuovo che non consentirebbe di crearsi un futuro. Tutto ciò precarizzerebbe quindi ulteriormente il ruolo ricercatori, rischiando di creare ricercatori “usa e getta” che dopo alcuni anni di dottorato e contratti a tempo determinato, non avranno alcuna garanzia di reclutamento, generando in tal modo le condizioni per una guerra tra poveri, se si tiene conto dei tagli, dei pochi fondi disponibili che potrebbero venire usati per sottrarre alla disoccupazione i ricercatori a termine, compromettendo quindi anche le prospettive di carriera degli attuali ricercatori a tempo indeterminato. Se ai tagli per le assunzioni, aggiungiamo il blocco delle remunerazioni già molto basse per i ricercatori, il risultato sarà l’aumento dell’uscita dal nostro Paese di giovani preparati e la fuga di cervelli diventerà inarrestabile.

La beffa ai danni del personale universitario cresce se si pensa che l’art. 9 comma 20 del decreto legge 78/2010 che inizialmente sosteneva che” i meccanismi di adeguamento retributivo per il personale non contrattualizzato (magistrati, professori e ricercatori universitari, dirigenti dei Corpi di polizia e delle Forze armate) non si applicano per gli anni 2011, 2012 e 2013 e non danno comunque luogo a successivi recuperi”, successivamente però è stato emendato nel senso che magistrati, dirigenti dei Corpi di polizia e delle Forze armate potranno recuperare gli scatti, mentre per ricercatori e professori universitari l’effetto del blocco resterà permanente: non c’è quindi nessun tipo di compensazione nel corso del resto della vita lavorativa, con conseguenze negative, quindi, anche sul trattamento della pensione.

Oggi siamo il fanalino di coda d’Europa.

L’Italia è l’unico Paese Ocse che, negli ultimi dieci anni ha tagliato gli investimenti sulla formazione e sulla ricerca invece che aumentarli.

L’interrogativo che ci si pone è se la riforma Gelmini penalizzando ancor di più con pesanti tagli alla ricerca e alla formazione universitaria, potrà portare realmente il nostro Paese al raggiungimento di quell’eccellenza.

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