Danimarca, Germania, Cipro, Austria, Finlandia, Svezia, Islanda, Norvegia, Svizzera, Montenegro, Macedonia e, ovviamente, Italia. Un elenco europeo in fase di riduzione che, in evidenza, ha come unico tratto comune la totale assenza di un salario minimo. Le cose potrebbero tuttavia cambiare radicalmente nei prossimi anni, visto e considerato che tra le scrivanie del Parlamento Europeo circola una richiesta che prevede l’introduzione di un salario minimo per tutti i cittadini del vecchio Continente, ad azzeramento delle evidenti disparità che sussistono tra i territori dove non è presente alcun supporto minimo mensile stabilito per legge, e il Lussemburgo, dove il salario minimo è fissato nell’invidiabile cifra di 1.801,49 euro.
Attraverso una serie di iniziative in fase di predisposizione, pertanto, sembra che il Parlamento Europeo abbia rotto gli ultimi indugi e si prepari a intervenire in maniera più incisiva sul mondo del lavoro europeo. Un mondo del lavoro che, dall’inizio della crisi (nel 2008) ad oggi ha visto andare in fumo oltre 6 milioni di posti, e che secondo quanto ribadiscono gli obiettivi stabiliti per il 2020, necessita di creare almeno 17,6 milioni di occupati.
Un traguardo che potrebbe apparire fin troppo ambizioso, soprattutto nel contesto attuale, influenzato pesantemente dal contributo negativo di qualche mercato nazionale. Qualche esempio? In Grecia il tasso di disoccupazione ha superato il 21% nel primo trimestre del 2012. Peggio ancora in Spagna, dove il tasso di disoccupazione è pari al 23,8%, mentre i giovani in cerca di un lavoro sono più di uno su due. In Francia, il tasso di disoccupazione ha superato il 10% (e quello italiano, al 9,8%), mentre quello giovanile ha toccato il 52,1% contro il 50,8% della Penisola. L’elenco delle contribuzioni negative potrebbe continuare, salvando – in qualità di rara eccezione – la Germania, dove la disoccupazione dovrebbe scendere al 6,7% entro la fine del 2012, e al 6,5% entro la fine del prossimo anno.
Non basta, tuttavia, garantire un posto di lavoro ai (pochi) fortunati in grado di occupare una posizione all’interno di aziende private ed enti pubblici. A preoccupare l’Europarlamento è anche la mancanza di un salario minimo fissato per legge. In molti Paesi – tra cui l’Italia – il minimum wage è stabilito dalla contrattazione delle parti sociali. Altrove è invece stabilito mediante intervento centrale, con un sistema di rivalutazione periodica che – sulla base dell’andamento dell’inflazione – dovrebbe garantire il mantenimento di parte del potere d’acquisto.
Anche tra chi il minimum wage lo ha già previsto, permangono inoltre evidenti disparità: si va infatti dagli oltre 1.800 euro del già ricordato Lussemburgo fino ai 180 euro (un decimo del ricco partner europeo) della Bulgaria, per una media europea che non riesce a giungere ai 1.000 euro. Di qui la necessità di ripianare le differenze, introducendo una normativa armonica per tutta l’Unione.
E in Italia? Il momento non sembra essere quello più roseo per introdurre un’innovazione di questo genere. Tuttavia, considerata la ghiotta occasione della recente riforma del lavoro e degli ammortizzatori sociali, sembra proprio che le parti politiche abbiano perso una straordinaria opportunità per porre al centro delle negoziazioni un tema che diverrà, nei prossimi anni, sempre più caldo.