Nella giungla di acronimi di tasse e tributi, la Tari merita un posto di rilievo. Se non altro perché incide, in maniera sempre più pesante, sui bilanci di famiglie, commercianti e imprenditori. Stando ai dati raccolti da Confesercenti, nel 2015, la tassa sui rifiuti arriverà a costare ai contribuenti italiani 10 miliardi di euro (di cui 4 miliardi a carico delle imprese). Una cifra stellare che segna un aumento del 20% rispetto al 2014 e del 100% rispetto al 2008.
Città che vai, Tari che paghi
Ma non tutti pagano allo stesso modo. Anzi: quella che lo studio della Confesercenti ha messo in risalto è una vera e propria “babele tributaria” nella quale a uscirne con le ossa rotte sono, soprattutto, albergatori, ristoratori e commercianti. E a fare la differenza può essere anche la città in cui hai avuto la fortuna (o la sfortuna) di avviare la tua attività. Qualche esempio? Napoli troneggia nella classifica della Tari più salata, con un importo medio (per commercianti e albergatori) stimato in 5.567,89 euro all’anno. Non se la passano bene neanche i “colleghi” di Firenze che, per i rifiuti, devono pagare una tassa media di 4.975 euro, mentre sul gradino più basso del podio si posiziona Roma che chiede poco più di 4.900 euro all’anno per “la monnezza”. Di contro, la Tari più leggera è quella de L’Aquila ai cui commercianti e albergatori è chiesto un tributo annuo di 1.473 euro. A seguire Aosta, con poco più di 1.745 euro e Campobasso, con 1.881,09 euro. Il divario può raggiungere, insomma, dimensioni importanti. Tanto che, a conti fatti, la Tari che gli esercenti aquilani devono pagare risulta 278 volte meno cara di quella che sono costretti a versare i napoletani.
Alberghi e negozi nel mirino
E come già detto, a pagare il prezzo più alto sono ben specifiche categorie lavorative come gli albergatori, i ristoratori, i gestori dei bar e i titolari di negozi. Più nel dettaglio: gestire un albergo a Napoli può voler dire pagare una Tari di 15 mila euro all’anno. Mentre essere a capo di un ristorante, di una pizzeria, di una trattoria o anche di un caffè o di una pasticceria a Venezia può arrivare a costare 12 mila euro annui. Potrebbe non essere un grande affare anche aprire un negozio di abbigliamento a Torino, dove la Tari può costare 3.900 euro all’anno, o investire su un esercizio di abbigliamento a Roma la cui amministrazione comunale chiede mediamente 2.300 euro all’anno per la tassa sui rifiuti. E non la fanno franca neanche i banchi dei mercati alimentari, soprattutto quelli genovesi che devono versare una media di 1.522 euro all’anno per la (presunta) spazzatura prodotta.
“Più che una tassa legata ad un servizio – ha commentato il presidente di Confesercenti, Massimo Vivoli – la Tari sembra essere ormai diventata un’imposta locale basata sulla superficie dell’attività e del tutto slegata dalla effettiva produzione di rifiuti e dall’efficienza dei sistemi di raccolta. Un tributo salatissimo, che praticamente in tutti i Comuni non appare proporzionato né ai consumi prodotti né al servizio ricevuto e che sta mettendo in ginocchio le imprese del commercio e del turismo”.
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