La Corte di Cassazione è tornata a occuparsi del tema del tempo-divisa e della sua retribuzione, ovvero della possibilità di inserire all’interno dell’orario di lavoro retributivo anche i minuti che servono per poter indossare la divisa aziendale. Una azione che – seppur preparatoria alle prestazioni vere e proprie – deve comunque essere retribuita laddove la relativa prestazione (anche se accessoria e strumentale) è eseguita nell’ambito della disciplina d’impresa e sia esigibile dal datore di lavoro.
Tempo-divisa: la nuova sentenza
In tal proposito, la Cassazione ha disposto – con la sentenza n. 2965/2017 – che il datore di lavoro riconosca ai lavoratori ricorrenti (dipendenti di un’azienda che produce gelati e surgelati) la retribuzione per il tempo impiegato per indossare e togliere gli abiti imposti dal datore di lavoro, come le tute, le scarpe antinfortunistiche, i copricapi, ecc.
Nel dettaglio, la sentenza degli Ermellini ricorda come la giurisprudenza della stessa Corte abbia più volte affermato, in relazione alla regola fissata dal R.D.L. 5 marzo 1923, n. 692, art. 3 – secondo cui “è considerato lavoro effettivo ogni lavoro che richieda un’occupazione assidua e continuativa” – il principio secondo cui tale disposizione non preclude che “il tempo impiegato per indossare la divisa sia da considerarsi lavoro effettivo, e debba essere pertanto retribuito, ove tale operazione sia diretta dal datore di lavoro, il quale ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, ovvero si tratti di operazioni di carattere strettamente necessario ed obbligatorio per lo svolgimento dell’attività lavorativa”.
La stessa Corte precisa inoltre che i principi di cui sopra non possono certamente ritenersi superati dalla disciplina introdotta dal D.Lgs. 8 aprile 2003, n. 66 (di attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE), il quale all’art. 1, comma 2, definisce “orario di lavoro” “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”; e “nel sottolineare la necessità dell’attualità dell’esercizio dell’attività o della funzione lascia in buona sostanza invariati -come osservato in dottrina -i criteri ermeneutici in precedenza adottati per l’integrazione di quei principi al fine di stabilire se si sia o meno in presenza di un lavoro effettivo, come tale retribuibile, stante il carattere generico della definizione testé riportata” – aggiunge la sentenza.
I criteri di cui sopra, precisano ancora i giudici della Suprema Corte, ben si innestano nel quadro comunitario, con la giurisprudenza internazionale che afferma che, per valutare se un certo periodo di servizio rientri o meno nella nozione di orario di lavoro, “occorre stabilire se il lavoratore sia o meno obbligato ad essere fisicamente presente sul luogo di lavoro e ad essere a disposizione di quest’ultimo per poter fornire immediatamente la propria opera”. Un orientamento che dunque permette di distinguere nel rapporto di lavoro una fase finale, che soddisfa direttamente l’interesse del datore di lavoro, “ed una fase preparatoria, relativa a prestazioni od attività accessorie e strumentali, da eseguire nell’ambito della disciplina d’impresa (art. 2104 c.c., comma 2) ed autonomamente esigibili dal datore di lavoro, il quale ad esempio può rifiutare la prestazione finale in difetto di quella preparatoria”. Di conseguenza, al tempo impiegato dal lavoratore per indossare gli abiti da lavoro (tempo estraneo a quello destinato alla prestazione lavorativa finale) deve corrispondere una retribuzione aggiuntiva, “il tempo necessario ad indossare la divisa aziendale rientra nell’orario di lavoro se è assoggetta to al potere di conformazione del datore di lavoro; l’eterodirezione può derivare dall’esplicita disciplina d’impresa o risultare implicitamente dalla natura degli indumenti, o dalla specifica funzione che devono assolvere, quando gli stessi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili secondo un criterio di normalità sociale dell’abbigliamento”.
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