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Vietato installare telecamere in azienda senza autorizzazione

<span style=”font-family: verdana, geneva, sans-serif”><span style=”font-size: 14px”><span style=”color: #000000″><img style=”display: none” class=” alignleft size-full wp-image-4430″ alt=”” src=”https://www.biancolavoro.it/wp-content/uploads/2014/02/Giudice.jpg” style=”margin: 3px; width: 160px; float: left; height: 107px” width=”1550″ height=”1033″ />Dura e netta sentenza in materia di <strong>riservatezza dei lavoratori in azienda</strong>. Secondo una pronuncia della Corte di Cassazione, è <strong>vietato installare telecamere nell’ambiente di lavoro senza una …

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 <span style="font-family: verdana, geneva, sans-serif"><span style="font-size: 14px"><span style="color: #000000"><img style="display: none" class=" alignleft size-full wp-image-4430" alt="" src="https://www.biancolavoro.it/wp-content/uploads/2014/02/Giudice.jpg" style="margin: 3px; width: 160px; float: left; height: 107px" width="1550" height="1033" />Dura e netta sentenza in materia di <strong>riservatezza dei lavoratori in azienda</strong>. Secondo una pronuncia della Corte di Cassazione, è <strong>vietato installare telecamere nell’ambiente di lavoro senza una preventiva autorizzazione</strong>. Un divieto che fa scattare una sanzione di natura penale in capo al datore di lavoro, responsabile perfino nell’ipotesi in cui la telecamera risulti effettivamente spenta. Ma in che modo si è giunti a tale conclusione?</span></span></span>

<span style="font-family: verdana, geneva, sans-serif"><span style="font-size: 14px"><span style="color: #000000">La sentenza in questione (la n. 4331 del 30 gennaio 2014) introduce un dibattito piuttosto interessante sulla necessità di <strong>tutelare il bene giuridico della riservatezza del lavoratore</strong>, punendo duramente quei datori di lavoro che abbiano installato delle telecamere puntate sui dipendenti durante la loro prestazione di lavoro, senza avere preventivamente richiesto (e ottenuto!) l’autorizzazione da parte della Direzione Provinciale del Lavoro, o essersi muniti di un accordo con le rappresentanze sindacali. Considerando che <strong>un comportamento quale quello appena ricordato appare essere lesivo della riservatezza dei lavoratori dipendenti</strong>, ne consegue la generazione di un reato di pericolo a carico del datore di lavoro. Un reato che scatterebbe in ogni caso e, perfino, quando la telecamera installata rimane spenta.</span></span></span>

 <span style="font-family: verdana, geneva, sans-serif"><span style="font-size: 14px"><span style="color: #000000">Per giungere a tale pronuncia, i giudici della Suprema Corte hanno chiamato in causa lo <strong>Statuto dei lavoratori</strong>, che all’art. 4 recita come “<em>gli impianti e le apparecchiature di controllo che siano richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, possono essere installati soltanto previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna. In difetto di accordo, su istanza del datore di lavoro, provvede l’Ispettorato del lavoro, dettando, ove occorra, le modalità per l’uso di tali impianti</em>”. Nella fattispecie in esame di pronuncia, il datore di lavoro non aveva ottenuto l’autorizzazione formale dell’ispettorato del lavoro, né il consenso sindacale o l’autorizzazione scritta di tutti i lavoratori interessati.</span></span></span>

<span style="font-family: verdana, geneva, sans-serif"><span style="font-size: 14px"><span style="color: #000000">Del tema in questione <strong>la Suprema Corte si era già occupata in un passato non troppo remoto</strong>. È di grande rilievo, ad esempio, la pronuncia n. 22611 dell’11 giugno 2012, laddove aveva ammesso la legittimità di un imprenditore a installare le telecamere nei locali della propria azienda, ribadendo tuttavia la necessità di ottenere il consenso informato sottoscritto all’unanimità dai dipendenti che risultano impiegati nella stessa azienda. Un consenso che – aggiungevano i giudici – può ben legittimare l’assenza del preventivo accordo con le rappresentanze sindacali, o l’autorizzazione della Direzione Territoriale del Lavoro che è territorialmente competente.</span></span></span>


All’epoca, la causa sulla quale si pronunciò la Corte riguardava il caso di un’imprenditrice alla quale era stato contestato l’aver applicato delle telecamere all’interno di un’azienda, in occasione di un controllo dei sindacati. L’imprenditrice respinse tuttavia le accuse facendo notare che tutti i lavoratori dipendenti impegnati nei locali erano stati adeguatamente informati della presenza di queste strutture di controllo a distanza, e avevano altresì firmato, per accettazione, un apposito modulo di consenso. Inoltre, proseguiva l’imprenditrice nella sua tesi difensiva, all’interno dell’azienda erano ben visibili dei cartelli affissi, riportanti l’avviso della presenza di impianti di videosorveglianza.

Ebbene, dinanzi a tale fattispecie la Corte di Cassazione era intervenuta chiaramente, constatando come il provvedimento di controllo “indiretto” era stato accettato da tutti i lavoratori con firma in calce a un documento informativo, ed era stato inoltre palesato mediante l’apposizione di cartelli informativi presso la sede aziendale. In quell’occasione, pertanto, la Suprema Corte affermava come nessun tipo di constatazione potesse essere posta a carico del datore di lavoro, poiché nessuna rilevanza avrebbe avuto la volontà contraria espressa da un rappresentante dei lavoratori, se i lavoratori stessi hanno accettato e sottoscritto la procedura di videosorveglianza.

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