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Andare in pensione: fortunato chi ci riuscirà

Restare disoccupati per un certo numero di anni potrebbe significare non riuscire ad andare in pensione, considerando che il periodo contributivo si allunga sempre più.

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Avete presente quando, non si sa come, un’assicuratrice simpatica e carina (non la vedete, ma sicuramente lo è), vi chiama sul cellulare (il cui numero non si sa come faccia ad avere) ed inizia a proporvi una miriade di soluzioni per la vostra “pensione integrativa”? Avete presente le frasi che utilizza? “Ormai lo dice anche il governo che la pensione è un miraggio” (Davvero? E quando l’avrebbe detto?), oppure “E’ necessario che c’incontriamo per discutere di una cosa molto importante per il tuo futuro” e anche “metti in cascina oggi per vivere più tranquillo domani”.

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image by Lighthunter

Vediamo un attimo, tralasciando la prima (che, sottolineiamo, non è una dichiarazione del governo, di nessun governo), le altre due frasi qualche riflessione la inducono. Ed è pur vero che, ad esempio il Governo Monti, ai suoi tempi (piuttosto recenti) più volte ha spinto per convincere gli italiani a farsi una pensione integrativa. Già, certo, ma la domanda che attualmente viene prima di tutte le altre è : chi riuscirà davvero ad andare in pensione?

Andare in pensione: sì, ma quando?

Come ormai è noto, da qui al 2050 si andrà in pensione sempre più tardi, o per dirla meglio dopo un sempre più lungo periodo contributivo. Se dal 2016 serviranno quattro mesi in più , con l’andare degli anni l’età anagrafica in cui si potrà andare in pensione crescerà continuamente fino forse a raggiungere i 70 anni (con la prevista accelerazione dal 2019 in poi). Il sistema, voluto dall’Europa e recepito dai precedenti governi italiani, lega l’inizio del periodo di riposo lavorativo permanente all’aumento dell’aspettativa di vita. Un provvedimento apparentemente perfetto per non esaurire prima del tempo le casse previdenziali.

E se perdo il lavoro?

In mezzo a tutto questo, c’è un “ma”, e purtroppo è un “ma” grande come una casa. Il suddetto sistema si basa sostanzialmente sul fatto che più uno resta al lavoro, più contributi versa, quindi, più le casse previdenziali si riempiono e più queste, in un secondo momento, potranno restituire al legittimo proprietario quanto prima depositato da quest’ultimo. Tutto vero, ma il presupposto principale su cui tutto questo si basa è quella che potremmo chiamare la contribuzione continua. Ovvero, uno per oltre 40 anni di periodo lavorativo (attualmente oltre 42, in aumento), non dovrebbe mai perdere il posto di lavoro. Altrimenti non solo addio stipendio, ma anche addio contributi, e quindi, visto il lunghissimo periodo necessario a maturare l’assegno pensionistico, anche addio a quest’ultimo. Contribuire infatti significa lavorare, ma se il lavoro non c’è…

Chi mi assume alla mia età?

L’altro problema collegato è, incredibile a dirsi, il concetto che viene comunemente definito come “puntare sui giovani”. Cosa sacrosanta, per carità, nuove competenze, nuove idee, una vera e propria ventata di aria fresca in azienda. Non è infatti per niente vero che “i giovani non hanno voglia di lavorare”, come dice qualcuno. Ci saranno anche i “pigroni”, o i “bamboccioni”, come ci sono tra i più maturi tra l’altro, ma certo non si può identificare intere generazioni in questo modo, è una cosa semplicemente assurda. Puntare sui giovani però, significa anche considerare meno i lavoratori maturi, per il banalissimo fatto che i posti di lavoro sono, mai come in questo periodo, numericamente limitati. In questo senso, le segnalazioni ai siti di settore (tra cui ovviamente anche il nostro), sono centinaia e centinaia, quotidianamente e hanno tutte più o meno lo stesso tono “Chi mi assume alla mia età”?

E’ vero infatti, anche se non sempre, che molti imprenditori tendono ad assumere i più giovani, per le ragioni più svariate, che non riguardano solo i costi vivi del personale. Una guerra generazionale involontaria e che genera scontri esclusivamente indiretti, ma dalle conseguenze doppiamente tragiche. Se da una parte il giovane fatica sempre più ad entrare nel mondo del lavoro, accedendo allo stesso sempre più tardi, per non parlare di quando riesce a stabilizzarsi, dall’altra un adulto a cui è capitato di dover uscire forzatamente dall’ambiente produttivo, non riesce più a rientrare dalla porta principale, se non dopo diversi anni e solo se è stato molto fortunato. In quest’ottica, l’allungamento dell’età pensionabile (provvedimento di origine europea), rischia di “impedire”, letteralmente, ad un gran numero di soggetti di raggiungere l’assegno pensionistico anche dopo decine d’anni di contributi versati.

Stante il fatto che il regime di piena occupazione è un concetto utopistico, in proposito si auspicano comunque soluzioni strutturali, che leghino sì la durata del periodo contributivo all’aspettativa di vita, ma che contemporaneamente prevedano un salvagente efficace per tutti quegli individui (e sono centinaia di migliaia) che il lavoro lo cercano, ma non lo trovano, che vorrebbero versare i contributi per la loro pensione, ma non lo possono fare, non certo per loro volontà.

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