E-mail pervenuta a La Posta di Bianco Lavoro
Gent.le redazione, oggi ho vissuto un’esperienza molto strana. Voglio condividerla, sperando che mi riesca di spiegarla decentemente perché, almeno per me, è stata decisamente istruttiva. Stamattina sono andato per lavoro in un’azienda che produce insaccati. Lavoro nel settore commerciale ed ero lì per incontrare il mio alterego dell’azienda in questione. Appena arrivato vado in portineria e mi annuncio. Mi rispondono che il mio contatto “scende tra cinque minuti”. Poco male, ho pensato io, esco a fumarmi una sigaretta. La “location”, come si dice adesso, è piuttosto montanara, su nel Nord. Ha appena smesso di piovere, ma nonostante questo non fa per niente freddo. A qualche decina di metri di distanza noto un “nugolo” di figure bianche, tutte quasi ferme, tutte molto vicine tra loro. Alcune di esse fumano, come me.
Per deformazione, se posso chiamarla così, mi avvicino passeggiando e scopro che sono tutte donne. Quel “nugolo” nascondeva una piccola porta. Dentro ce ne sono altre. Mi metto a parlare con una di loro che mi dice: “siamo le operaie della cella frigorifera”. Il momento successivo, nella mia testa si apre un mondo; inizio ad osservare il loro comportamento. Parlano di lavoro, sottovoce, ma con “quelle dentro” la alzano. Quelle dentro (…) sono sedute su una specie di panchina. Una di loro ha una mano sul calorifero e l’altra in tasca. Ho pensato avesse freddo perché era malata, invece, qualche secondo dopo la vedo alzarsi e quella di fianco a lei prendere il suo posto.
Come fosse un rito, una specie di procedura standard basata sull’uguaglianza. O almeno io l’ho capita così. Riesco a intuire che tra loro comunicano anche a gesti, cioè senza parlarsi. Mi sono venute in mente quelle operaie di fine 1800 o inizio 1900 immortalate in qualche vecchissima foto. Probabilmente ho una visione un po’ troppo romanticistica, forse perché mi ha particolarmente colpito. Ho avuto l’impressione fossero empatiche tra loro, telepatiche addirittura. Una sorta di vita in comune. La loro semplicità mi ha letteralmente disarmato. Ad un certo punto una di loro esclama con tono preoccupato “ragazze se suona dobbiamo correre”. Ragazze, che avevano anche 50-55 anni. Ma il comportamento di queste ultime era esattamente identico a quello delle novizie di 20-25. E, ovviamente, viceversa. 40 secondi dopo, qualcosa suona davvero. Una sorta di campanella. E tutte, incredibilmente, corrono , sparendo dietro un’altra porta, più interna. Come quando a scuola arrivava la maestra, ma senza che nessuno le obbligasse.
A quel punto sento un brivido fortissimo percorrermi tutta la schiena, così atroce da riuscire a spaventarmi. Oggi, ho un buon lavoro, uno stipendio normale, posso dire di essere contento, e soprattutto molto fortunato. Ma, se mi passate il termine, i miei anni di merda li ho vissuti anch’io. Ben tre di disoccupazione piena, intesa nel senso più statistico possibile. Più di 36 mesi spesi a cercare lavoro senza ottenere nient’altro che poche risposte e anche piuttosto vaghe, scansando truffe o presunte tali e prendendo degli ottimi vaffa da responsabili che io decisamente non chiamerei in questo modo. Nei miei tre anni (non ripeto la definizione di prima), ho pensato di tutto, ogni giorno. Che sarei finito in mezzo alla strada, che non avrei mai potuto dare una vecchiaia serena ai miei genitori, che avrei dovuto dar via i miei animali, che la mia vita, così come la conoscevo, era sostanzialmente finita. Mi reputo un caso lampante di quanto tutte queste cose, pur assolutamente vere nel momento in cui le si pensa, siano delle immani str.. se declinate a tempo indeterminato. Non perché a tutti andrà sicuramente bene, purtroppo mi rendo conto che non può essere così, ma perché ragionare in tal modo è la via più corta e sicura per auto-realizzare una profezia che è la peggiore possibile. Spiego questo nel tentativo di far capire quale sia stato il mio stato d’animo durante quei lunghissimi tre anni: scoraggiato, depresso, svogliato, per nulla performante e chi più ne ha più ne metta. Certo, quando mi è stato offerto un lavoro, quello stato d’animo l’ho cambiato, “sbattendomi” come forse mai avevo fatto prima in tutta la mia vita. Così, sono riuscito a tenermelo.
Prima di tutto questo, lavoravo, ancora come dipendente, ancora in solitaria. Mi appoggiavo ad un ufficio, ma quella “vita in comune” delle “operaie della cella frigorifera” per me era fantascienza pura, fino ad oggi. Il brivido di cui sopra e che mi ha quasi fatto cadere per terra mi è venuto quando, per un attimo, ho riversato la mia vita da disoccupato su di loro. Mi spiego meglio. Quando ho perso il lavoro, ho ovviamente perso anche un sacco di contatti, qualche amicizia (o almeno pensavo lo fosse), una marea di conoscenze. Ho sofferto non poco anche per questo. Persone che vedevo, magari non tutti i giorni, ma in maniera regolare erano sparite per sempre. Gente con cui condividevo hobby, scambiavo opinioni, a volte uscivo a cena; nel giro di due settimane, tutto finito. Ma, se devo dirla tutta, erano contatti fondamentalmente superficiali, che c’erano perché “c’erano” e non ci sono stati più quando “non ci sono stati più”. Non so se sono riuscito a rendere.
Questa mattina, ho sudato freddo nel pensare a cosa potrebbe essere per quelle operaie, così unite tra loro, così solidali, così eccezionali nella loro semplicità, perdere non un lavoro, ma QUEL lavoro. Ho pensato a quali conseguenze psicologiche potrebbe avere una rivoluzione simile nelle loro vite. E non sto parlando del pur ovviamente fondamentale lato economico, sto parlando di quel non potersi più vedere per oltre un terzo della giornata, del non poter più condividere quegli elementari gesti comuni e ormai pressoché meccanici che, dal mio umilissimo punto di vista, rendono quel “nugolo” un’entità a sé stante, bellissima, una di quelle che migliora un pochino questo nostro disastrato mondo. In tutto questo, mi sono sentito piccolo piccolo.
Poi, mi sono ripreso un attimo, pensando al fatto che quell’azienda comunque è sana, robusta, ha resistito alla crisi alla grande. E allora mi sono detto: beh, a loro non accadrà mai, figata! Subito dopo però, mi sono sentito un emerito cretino, perché sì, quelle figure bianche che ho visto io, molto probabilmente e ancor più, fortunatamente, rimarranno lì dove sono per tutta la loro vita lavorativa, se lo vorranno, ma chissà quante aziende come quella, dove c’erano altri nugoli, di donne o di uomini non importa, hanno chiuso i battenti in questi anni. Chissà quanti piccoli universi sono scomparsi per sempre – ho iniziato a pensare – e chissà quali drammi psicologici hanno creato nella vita di tutte le persone coinvolte. Allora, mi sono sentito ancora più piccolo di prima.
Gianluca – Brescia