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Il duro lavoro dei gamer: si può andare in pensione a 23 anni

Diventare campioni di videogame non è affatto un gioco da ragazzi. La strada è lastricata di fatica, stress e rinunce, ma può portare a guadagni da capogiro

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La notizia del giovane sudcoreano che ha deciso di allontanarsi dalle scene dell’agonismo videoludico all’età di 23 anni ha fatto il giro del mondo. Lee “Flash” Young-ho è, infatti, il campione di “StarCraft” (videogame di strategia in tempo reale) che rischia di passare alla storia non solo per i suoi primati mondiali, ma anche per la scelta di andare in pensione poco più che ventenne. In un’età in cui i suoi coetanei cercano, di solito con fatica, di guadagnarsi la prima, stentata paghetta.

pro-gamer
image by Adam Ziaja

Voglia di staccare la spina

Lee “Flash” Young-ho è quello che si definisce un pro-gamer ovvero un videogiocatore professionista che ha speso nove anni della sua breve vita (l’esordio è avvenuto all’età di 14 anni) davanti a una consolle. Inanellando una serie impressionante di successi che gli hanno procurato la fama di “God” (Dio) tra i suoi fan e un conto in banca di tutto rispetto. I 14 tornei internazionali vinti gli hanno, infatti, permesso di mettere da parte qualcosa come 460 mila euro. Fino ad oggi. E già, perché il giovane sudcoreano ha annunciato di voler staccare letteralmente la spina, fornendoci il pretesto per indagare su una figura – quella del gamer appunto – che si fa fatica a considerare un vero e proprio lavoro. Ma che in fondo lo è.

La costanza non basta

Essere un videogamer professionista non è un gioco da ragazzi. Anzi: si tratta di un’attività che necessita di una costante applicazione. I gamer che si preparano per le competizioni internazionali devono allenarsi dalle 6 alle 9 ore al giorno, seguendo programmi ben definiti dai quali non possono discostarsi. Non stiamo insomma parlando di adolescenti svogliati, che preferiscono gli e-sport (sport elettronici) ai libri; ma di dediti giocatori, che si danno da fare per trasformare la loro passione in una professione. Gli esperti consigliano di iniziare dai tornei di zona e di entrare in una delle tante comunità virtuali che permettono di confrontarsi e di condividere esperienze. Senza dimenticare che non tutti possono essere pro-gamer: esattamente come negli altri sport, anche in quelli elettronici la costanza non basta. Occorre avere qualcosa in più, una sorta di talento. I gamer più capaci e famosi riescono a compiere centinaia di azioni al minuto e hanno tempi di reazione fuori dalla norma. Non è, insomma, una professione alla portata di tutti.

Tra stress e guadagni da capogiro

E non si sottovaluti lo stress psicologico: chi gioca per professione ai videogame è costretto a trascorrere lunghe ore davanti a uno schermo che lo isola da tutto ciò che resta fuori. I rapporti con gli amici e i familiari ne possono uscire con le ossa rotte, soprattutto se il gamer (che è quasi sempre un adolescente) non riesce a tracciare una linea netta tra la dimensione virtuale e quella reale. E finisce per sacrificare e subordinare la seconda alla prima. Quella del pro-gamer è, insomma, una strada tutt’altro che agevole, lastricata di rinunce e difficoltà da non sottostimare . Ma che – è giusto riconoscerlo – può portare anche a lauti compensi. Nella classifica mondiale, a primeggiare è l’americano Peter Dager che ha già portato a casa più di 2 milioni di dollari, mentre il primo italiano a comparire è Alessandro Avallone (numero 157 del mondo) che ha dovuto “accontentarsi” di 188,342 dollari.

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