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Orario di lavoro e bravi lavoratori: mica è facile capire chi sono

Dopo la distinzione tra i lavoratori a cui serve un orario e quelli ai quali sta stretto, c’è quella tra chi lavora bene e chi no, ma distinguere non è così facile.

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Le dichiarazioni del Ministro Poletti di non più di dieci giorni fa hanno fatto discutere non poco. A parte la questione laurea prima con voto medio o laurea dopo con lode, a tenere banco per un bel numero di giorni sono state soprattutto le frasi relative all’orario di lavoro, definito un parametro vecchio, non più adatto a valutare correttamente il reale livello di un lavoratore, nonché la sua concreta incidenza sulla produzione aziendale. Del problema orario di lavoro ne hanno parlato un po’ tutti. Il Fatto Quotidiano ad esempio, in un post firmato dal vicedirettore Stefano Feltri, ha messo in luce una distinzione di non poco conto. Alcuni lavori (e alcuni lavoratori) non possono essere valutati “a ore” a prescindere, nel senso che il tipo di attività svolta non permette una valutazione di tipo numerico.

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image by Racorn

Ed è vero; giusto per fare un esempio facile facile, come diavolo si potrebbe ingabbiare in un numero pur variabile di ore il lavoro di un creativo? Quando uno crea, lo fa e basta. Non sta lì a vedere l’orario, il giorno, o il luogo. Crea, lì dov’è ed in quel momento, punto. Per altri lavoratori ha spiegato invece Feltri, il numero di ore è fondamentale. Soprattutto per quei lavoratori che “fanno parte di una catena” più lunga e complessa, per i quali è impossibile o quasi stabilire parametri troppo larghi di valutazione. Insomma, ci sono lavori per i quali l’orario è imprescindibile e altri per i quali quest’ultimo non dovrebbe essere nemmeno calcolato. Può essere che ci sia una terza categoria, per così dire, mista, ma affronteremo forse la questione in un altro momento.

Le tesi di Feltri sono state riprese dal sito Proposta Lavoro. In un post firmato da Alessia Gervasi si sostiene che “l’obiettivo dovrebbe essere la tutela del lavoratore che lavora e che sa fare bene il proprio lavoro”, aggiungendo così un concetto importante alla conclusione di Feltri sul Fatto, per il quale ”l’obiettivo della polemica dovrebbe essere la difesa del lavoratore, non dell’orario”. Proviamo anche noi ad aggiungerne un altro, di concetto. Sacrosanto che, al posto di difendere l’orario di lavoro, vada difeso il lavoratore. Ancora più sacrosanto che vada difeso in primis il lavoratore che sa fare il proprio lavoro. Ma qui, come si suol dire, casca l’asino. Se è vero (e probabilmente è vero) che, come scrive la Gervasi “la verità è che non tutti i lavoratori meritano di essere difesi” è altrettanto vero che identificare esattamente quali siano i lavoratori che “meritano di essere difesi” perché “sanno fare bene il loro lavoro” è cosa tutt’altro che facile. Perché, se l’asino è appena cascato, adesso “gatta ci cova”

Chi è bravo non lo dice e quindi non si nota

Va da sé che il primo pensiero di un bravo lavoratore sia quello di lavorare bene. Per farlo non basta conoscere alla perfezione quel che si deve fare, bisogna comunque metterci sempre la testa, bisogna insomma, impegnarsi in quel che si fa. “Niente di nuovo sul fronte occidentale” dirà qualcuno; vero, il concetto è vecchio quanto il mondo. Il problema però, è che spesso capita che chi lavora bene e s’impegna in quello che fa, non ha tempo e nemmeno ritiene necessario auto-promuoversi, per dirla con un basilare concetto di marketing: sembra infatti di sentirlo, il bravo lavoratore: “ ma se io lavoro bene che bisogno c’è che vada a dire ai miei capi che lavoro bene? Lo vedranno, no?” No… o comunque non è certo scontato.

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image by Racorn

Certo dipende da chi sono “i capi”, dal loro grado di osservazione dei propri sottoposti, da quanto rimangono o meno in azienda a controllare e da un sacco di altre cose. Però, il lavoratore, per così dire “furbo”, sa benissimo che “sbattersi” un po’ meno nell’esercizio della mansione assegnata ed investire una parte del proprio tempo e dei propri pensieri nel cercare di capire come ottenere vantaggi e/o molto più semplicemente come farsi notare al momento giusto dai propri responsabili è sicuramente un’ottima strategia. E se non riuscirà a finire le attività di sua competenza beh, poco male, tanto c’è il bravo lavoratore, pronto a sopperire alle mancanze degli altri.

Quando questa strategia riesce, ecco che il lavoratore furbo si trasforma nel bravo lavoratore e quello che davvero dedica anima e corpo all’azienda , pur restando nei fatti un elemento di valore, rischia: A) di non venire riconosciuto come tale, per il semplice fatto che siccome continua a lavorare anche quando sarebbe il caso di fare un po’ di pubbliche relazioni, nessuno lo nota. B) che venga dato per scontato il fatto che il suo impegno e la sua resa debbano essere sempre ai massimi livelli. Così, se un giorno il bravo lavoratore ha “i cavoli suoi”, o non è fisicamente in perfetta forma e risulta, inevitabilmente, un pochino meno performante, ecco spuntare immediatamente chi è pronto ad accusarlo di negligenza. E magari l’accusatore è uno di quelli che magicamente si ritrova alla macchinetta del caffè con il suo responsabile tutti i santi giorni, per caso ovviamente. “Quell’altro” invece, il tempo di bere il caffè magari non se lo prende neppure perché sa che c’è un lavoro da fare e che, o lo fa lui, o non lo farà nessuno.

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image by Pablo Calvog

Orario di lavoro? Lavorando non sempre lo si guarda

Sarà anche vero che in un’azienda tutti sono utili e nessuno è indispensabile, ma è anche questo un concetto che spesso assume o meno valore di verità a seconda delle situazioni. Perché fino a quando c’è il bravo lavoratore a risolvere i problemi, allora la sua presenza ed il suo lavoro vengono giudicati indispensabili (così almeno continua a farlo, il lavoro), quando invece per una qualsiasi ragione la realtà muta, cambia o almeno può cambiare anche la percezione di questo tipo di lavoratori, sempre così impegnati a far andar bene le cose.

Va precisato che il quadro non è così tragico, non sempre almeno, anzi: di solito le aziende alla lunga sanno riconoscere chi davvero merita un riconoscimento e chi invece è più dedito a cavarsela con poco sforzo e molte parole. Al primo tra l’altro, se non rigidamente regolato, solitamente poco importa dell’orario di lavoro, il secondo invece, guarda caso, tende spesso ad essere molto più fiscale. Fatto sta che, per tornare al discorso originario: giustissimo tutelare prima di tutto i lavoratori più bravi, ma capire chi sono davvero è spesso impresa ardua. Ci vuole un’ottima conoscenza della realtà aziendale, delle persone che ci lavorano e delle situazioni quotidiane in cui queste persone sono immerse. Senza questi tre elementi si rischia seriamente di premiare chi effettivamente vuole essere premiato, ma che poco o nulla fa per meritarselo davvero.

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