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Il licenziamento della lavoratrice durante la gravidanza

Cosa deve fare la lavoratrice in gravidanza in caso di illegittimo licenziamento? Ecco le eccezioni alla regola e cosa fare in caso di licenziamento.

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Il tema della genitorialità e del lavoro sta acquisendo sempre maggiore importanza, in particolare sia per quanto riguarda le tutele offerte dal Legislatore ai genitori (divieto di licenziamento, congedo di maternità, permessi, ecc.) che sia per il work-life balance. Negli ultimi tempi, un argomento che è oggetto di approfondimento da parte della giurisprudenza, è il licenziamento intimato alla lavoratrice durante la gravidanza.

Indice

Gravidanza e licenziamento

licenziamento in gravidanza

Innanzitutto occorre premettere che sul punto esiste il Testo Unico in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità che, all’art. 54, stabilisce chiaramente che “le lavoratrici non possono essere licenziate dall’inizio del periodo di gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino.”

Il divieto di licenziamento è valido in relazione allo stato oggettivo di gravidanza e la lavoratrice, licenziata nel corso del periodo in cui opera il divieto, è tenuta a presentare al datore di lavoro idonea certificazione dalla quale risulti l’esistenza all’epoca del licenziamento, delle condizioni che lo vietavano. Ciò significa che il licenziamento intimato alla lavoratrice nel periodo intercorrente tra l’inizio del periodo di gestazione ed il compimento di un anno di età del bambino è nullo ed improduttivo di effetti. In tale ipotesi, pertanto, il rapporto di lavoro deve ritenersi giuridicamente pendente.

Cosa significa che il licenziamento è nullo?

Significa che nell’ipotesi in cui il datore di lavoro abbia licenziato la lavoratrice durante il periodo in cui vige il divieto indicato dalla norma, egli è obbligato a riammettere la lavoratrice in servizio ed a pagarle tutti i danni derivanti dall’inadempimento, in ragione del mancato guadagno, patiti per effetto del provvedimento espulsivo. Il Testo Unico ha carattere speciale ed autonomo, in quanto finalizzato a tutelare la lavoratrice madre durante un periodo particolare della sua vita e, quindi, non comporta l’applicazione analogica delle norme ordinarie in tema di licenziamenti individuali.

A cosa ha diritto?

Il licenziamento intimato nel periodo in cui vige il divieto è nullo e la lavoratrice ha diritto:

  • se è stata assunta prima del 7 marzo 2015, alle tutele indicate dall’art. 18 della legge 300/1970 e successive modifiche;
  • se è stata assunta dopo il 7 marzo 2015, alle tutele previste dal decreto legislativo 23/2015 (inerente alla disciplina del contratto a tutele crescenti).

Tali norme hanno contenuto fondamentalmente equivalente; entrambe prevedono che la lavoratrice licenziata nel periodo di maternità ha diritto alla tutela reintegratoria piena, che prevede:

  • l’ordine di reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro: la reintegrazione consiste nel riammettere la dipendente nella stessa mansione che occupava prima del licenziamento. Se la lavoratrice decide di tornare al lavoro, deve riprendere servizio entro 30 giorni dalla convocazione dell’azienda diversamente il rapporto è da reputarsi cessato.
  • la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno, nella misura della retribuzione maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, sottratti gli importi percepiti per mezzo di un’altra occupazione (l’indennità non può comunque essere inferiore alle cinque mensilità);
  • il versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali per tutto il periodo intercorso fra il licenziamento a quello della reintegrazione;
  • il cd. diritto di opzione a favore della lavoratrice, cioè la possibilità per quest’ultima di scegliere il pagamento di un’indennità pari a quindici mensilità al posto della reintegra.

Cosa deve fare la lavoratrice in caso di illegittimo licenziamento?

La lavoratrice è tenuta ad impugnare il licenziamento. L’impugnazione può essere presentata:

  • direttamente dalla lavoratrice,
  • dal sindacato di cui fa parte,
  • da un suo rappresentante (solitamente un avvocato) munito di procura.

Il licenziamento deve essere impugnato entro 60 giorni dalla sua comunicazione, con qualsiasi atto scritto (anche stragiudiziale) idoneo a manifestare espressamente la volontà di impugnare il licenziamento della lavoratrice al datore di lavoro (può andar bene anche una raccomandata con ricevuta di ritorno).

Si tenga presente che nell’atto di impugnazione non devono essere necessariamente indicati tutti i motivi per cui si sostiene l’illegittimità del licenziamento, l’unica cosa che è obbligatoria è la chiara e inequivocabile manifestazione di volontà ad impugnare il licenziamento.  

All’atto di impugnazione deve seguire il deposito del ricorso giudiziale o la comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, altrimenti si verifica l’inefficacia dell’atto.

Il divieto di licenziamento si applica anche in caso di adozioni e di affidamento?

Si, il divieto di licenziamento di cui all’art. 54 D.Lgs. 151/2001 si applica anche nell’ipotesi in cui venga preso un bambino in adozione e in affidamento, sino a un anno dall’ingresso del minore nel nucleo familiare, in caso di fruizione del congedo di maternità e di paternità. Non solo, tale divieto, nell’ottica di tutela della genitorialità, si riconosce anche al padre lavoratore, in caso di fruizione del congedo di paternità, per la durata del congedo stesso, e si estende sino al compimento di un anno di età del bambino.

E se il datore di lavoro è inconsapevole dello stato della lavoratrice?

La norma ricollega il licenziamento semplicemente allo stato oggettivo di gravidanza e puerperio, senza richiedere la presenza di altri requisiti. Di conseguenza, il divieto vale anche nell’ipotesi in cui il datore di lavoro non è a conoscenza della gravidanza della lavoratrice, bastando la dimostrazione, anche in un momento successivo, dell’instaurazione della gravidanza prima dell’intimidazione del licenziamento. Pertanto la lavoratrice (illegittimamente licenziata) può presentare tale certificato anche in allegato al ricorso con il quale impugna il licenziamento. L’esibizione della documentazione medica fa sorgere il diritto al pagamento delle retribuzioni successive alla data di effettiva cessazione del rapporto, le quali maturano a decorrere dalla presentazione della certificazione attestante lo stato di gravidanza. Occorrendo semplicemente la prova dello stato oggettivo, il licenziamento è “contra legem” anche nel caso di inconsapevolezza del datore di lavoro, rendendo operative tutte le tutele previste dalla disciplina medesima.

Se la lavoratrice rimane incinta durante il periodo di preavviso?

La gravidanza sopravvenuta durante il periodo di preavviso non costituisce causa di nullità del licenziamento per violazione dell’art. 54 d.lgs. n. 151/2001 ma determina la sospensione del periodo di preavviso. Vuol dire che vengono posticipati in un momento successivo gli effetti dello stesso, ovvero la definitiva cessazione del rapporto di lavoro e di tutte le obbligazioni ad esso connesse.

Ciò in quanto, in base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, il licenziamento, come negozio unilaterale recettizio, si perfeziona nel momento in cui la manifestazione di volontà del datore di lavoro recedente giunge a conoscenza del lavoratore, anche se l’efficacia (vale a dire la produzione dell’effetto tipico, consistente nella risoluzione del rapporto di lavoro) viene rimandata ad un momento successivo. Di conseguenza, il momento che rileva ai fini della validità o meno del licenziamento è quello in cui la lavoratrice ha piena conoscenza del licenziamento. In tale ipotesi, nel momento in cui la lavoratrice ha ricevuto la lettera di licenziamento, non si trovava in stato di gravidanza, in quanto la gravidanza è intervenuta nel corso del periodo di preavviso “lavorato” e, come tale, viene coperto dall’ambito di operatività della disciplina dell’art. 2110 c.c.

In caso di vincita di un concorso?

Per costante orientamento giurisprudenziale, il principio di tutela delle donne in stato oggettivo di gravidanza deve essere rispettato anche in occasione di vincita di un concorso, in quanto tale tutela è codificata da normative internazionali e comunitarie, ad iniziare dalla Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro la donna. Non solo, come stabilito dalla stessa Corte dei Conti, non vi è alcuna norma che imponga alla lavoratrice gestante di far conoscere al datore di lavoro il proprio stato di gravidanza prima dell’assunzione, né un siffatto obbligo può ricavarsi quando la lavoratrice viene assunta con contratto a tempo determinato, dai canoni generali di correttezza e buona fede di cui agli art. 1175 e 1375 c.c., mentre l’accoglimento di una diversa opinione condurrebbe a ravvisare nello stato di gravidanza un ostacolo all’assunzione al lavoro della donna e finirebbe così a svuotare di significato la medesima legge finalizzata a tutelare le lavoratrici madri. Di conseguenza, l’inserimento in graduatoria attribuisce un diritto soggettivo all’assunzione anche se la lavoratrice è in gravidanza, legittimando la stessa a richiedere il risarcimento del danno nel caso in cui non fosse stata assunta a causa del suo stato.

Cosa non può fare il datore di lavoro durante il periodo di divieto di licenziamento

Durante il periodo in cui opera il divieto di licenziamento, la lavoratrice non può essere sospesa dal lavoro, salvo il caso che sia sospesa l’attività dell’azienda o del reparto cui essa è addetta, sempre che il reparto stesso abbia autonomia funzionale. La lavoratrice non può altresì essere collocata in mobilità a seguito di licenziamento collettivo, salva l’ipotesi di collocamento in mobilità a seguito della cessazione dell’attività dell’azienda.

Le deroghe al divieto di licenziamento

Il divieto di licenziamento non si applica nei casi:

  • di colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro;
  • di cessazione dell’attività dell’azienda;
  • di ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine;
  • di esito negativo della prova.

Il licenziamento per colpa grave della gestante

Si tenga presente che non è sufficiente la giusta causa, ma deve necessariamente configurarsi la colpa grave della lavoratrice. Tale colpa non può considerarsi integrata dall’esistenza di un giustificato motivo soggettivo, (con tale intendendosi una situazione prevista dalla contrattazione collettiva quale giusta causa idonea a legittimare il licenziamento) ma deve configurarsi l’elemento colpa così come chiaramente richiesto dalla norma. Infatti la gravità del comportamento della lavoratrice deve essere connotato da un tale livello di gravità, differente e superiore a quello stabilito dalla normale disciplina del licenziamento per inadempimento.  

L’accertamento e la valutazione in concreto della colpa grave spettano al giudice di merito, il cui ambito di indagine deve estendersi ad un’ampia ricostruzione fattuale del caso concreto e alla considerazione della vicenda espulsiva nella pluralità dei sui diversi componenti”. E tale più esteso, articolato e completo ambito di indagine “è conseguenza necessaria del carattere autonomo della fattispecie e della sua peculiarità, in quanto la colpa grave, che giustifica la risoluzione del rapporto, è quella della donna che si trova in una fase di oggettivo rilievo nella sua vita, con possibili ripercussioni sui piani diversi della sua esistenza (personale e psicologico, familiare, organizzativo)“.

Il licenziamento per la cessazione dell’attività dell’azienda

Tale deroga opera solo in caso di cessazione dell’intera attività aziendale e non solamente di un reparto, di un negozio o di un ramo di azienda. Ciò in quanto si tratta di una fattispecie normativa di stretta interpretazione, che non può essere applicata in via estensiva ai casi di cessazione dell’attività di un singolo reparto dell’azienda, pure se dotato di autonomia funzionale. Si tenga presente che la richiesta dell’impresa di accedere a concordato preventivo, successivamente omologato, legittima il licenziamento della lavoratrice in gravidanza.

Il confine tra esito negativo della prova e licenziamento discriminatorio

Innanzitutto occorre premette che la legge permette al datore di lavoro il licenziamento per mancato superamento del periodo di prova senza necessità di addurre motivazione. Tale normativa va raccordata con quella prevista per la tutela della genitorialità. Di conseguenza, possono verificarsi due situazioni:

  1. nella prima in cui il licenziamento intimato per mancato superamento del periodo di prova è legittimo;
  2. nella seconda in cui il licenziamento è impugnabile in quanto discriminatorio, perché il datore di lavoro ha approfittato del periodo di prova per discriminare la lavoratrice in gravidanza.

Come si fa a capire in quale situazione il licenziamento è legittimo e quando, invece, è discriminatorio? Dalla motivazione. La totale mancanza o insufficienza della motivazione circa l’esito negativo della prova costituisce un elemento sufficiente a determinare la nullità del licenziamento. Infatti il datore che risolve il rapporto di lavoro in prova con una lavoratrice di cui conosca lo stato di gravidanza deve spiegare in modo motivato le ragioni che giustificano il giudizio negativo circa l’esito dell’esperimento, così da consentire alla controparte di individuare i temi della prova contraria e al giudice di svolgere un opportuno sindacato di merito sui reali motivi, al fine di escludere con ragionevole certezza che il licenziamento sia stato determinato dalla condizione di donna incinta (così, Corte Cost. 31 maggio 1996, n. 172).

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