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Mamme al lavoro: c’è ancora molto da fare

Donne e uomini non hanno le stesse possibilità nel mondo del lavoro. E se una donna è anche madre diventa ancora più difficile. Ma qualcosa certamente si può fare.

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Il mondo del lavoro non è ancora paritario tra uomo e donna, soprattutto se quest’ultima è una madre. I problemi sono tanti e non riguardano solo il cosiddetto gender pay gap, ovvero la differenza di retribuzione tra maschi e femmine a parità di mansione. Esistono dei bias che inficiano le performance delle donne e che però non dipendono da loro, anzi, è esattamente il contrario, perché le donne sostanzialmente fanno lo stesso lavoro degli uomini nonostante quei bias. Per le mamme la situazione è ancora peggiore perché la genitorialità è vista spesso come un ostacolo piuttosto che come un evento naturale della vita. Anche in questo caso bisognerebbe pensare al contrario rispetto alla tendenza dominante: se una donna riesce a lavorare come un uomo essendo anche madre vuol dire che fa di più, non di meno.

La percezione collettiva sembra essere sottomessa al concetto della donna e madre non alla pari con l’uomo. Secondo un’indagine di Quorum / Youtrend per Sky TG24 infatti, il 55% degli italiani intervistati pensa che essere madre danneggi la carriera di una donna, mentre tocchi a malapena quella di un uomo. Ciò accade in gran parte a causa della persistenza di stereotipi nella società, che appunto faticano grandemente a morire, come quello per il quale un figlio toglie tempo al lavoro. Gli intervistati sembrerebbero aver capito che vi è una certa tendenza a colpevolizzare la madre per essere tale, per preferire insomma la famiglia al lavoro. Questa pratica, senza usare giri di parole, è sostanzialmente stupida. Almeno in Italia il lavoro di cura dei figli ricade maggiormente sulla componente femminile della famiglia. Sostanzialmente, nella maggioranza dei casi, l’uomo può dedicarsi di più al lavoro perché “tanto c’è la donna” che fa tutto. Siccome però il tempo a disposizione è uguale per tutti ecco che è proprio la donna a dover rinunciare, per così dire, ad una parte dell’attività lavorativa. Questo ovviamente può incidere fortemente sulle sue possibilità di carriera. Il lato che però viene considerato sempre troppo poco, è la capacità organizzativa delle donne che invece riescono quasi sempre a destreggiarsi sapientemente tra lavoro e famiglia, meglio di un uomo, visto che quest’ultimo in generale lo fa di meno.

Il nodo dell’avere figli

Andrebbero poi abbattuti diversi stereotipi di genere che causano differenze assolutamente ingiustificate tra uomo e donna, soprattutto se quest’ultima è una madre, o comunque lo vorrebbe diventare. Ed infatti, nonostante sia vietato, resiste ancora nei colloqui di lavoro la domanda sull’intenzione di diventare madri. Secondo un’indagine di Gi Group “oltre la metà delle lavoratrici (intervistate, Nda) ha, infatti, percepito discriminazione nel corso dell’esperienza lavorativa o in fase di selezione.” Più del 20% ha dichiarato: “mi è stato chiesto se intendessi avere figli”. Secondo la stessa indagine sono direttamente le aziende, in una percentuale del 60% ad ammettere che “le domande rivolte a uomini e donne in un colloquio sono diverse”.

In ogni caso a pesare sulla carriera lavorativa delle donne non è solo il periodo di maternità, ma è sostanzialmente l’esistenza stessa di uno o più figli. A certificarlo è direttamente l’Istat: tra i 25 e i 49 anni il tasso di occupazione, del 71,9% per le donne senza figli, scende al 53,4% per quelle che hanno almeno un figlio di età inferiore ai 6 anni. Questo significa che, in una percentuale non trascurabile, le aziende non fanno abbastanza per mantenere il posto di lavoro nel lungo periodo delle donne diventate madri. E’ chiaro che adottando una prospettiva del genere le possibilità di carriera per una donna si restringono fortemente. Ed infatti è proprio la prospettiva ad essere sbagliata.

La domanda sulla volontà di diventare genitore non è l’unica riservata alle donne. Sempre secondo l’indagine di Gi Group vi sono richieste precise che generalmente agli uomini non vengono fatte, o vengono fatte in maniera molto minore, come quella che riguarda la disponibilità a viaggiare, o quella ad affrontare compiti faticosi, o ancora l’attitudine alla leadership, unitamente ad una certa flessibilità sul lavoro e la richiesta di competenze tecniche. E’ facile notare come queste possano invece tranquillamente riguardare anche gli uomini.

E allora come risolvere la questione? Come fare per rendere il mondo del lavoro più paritario? Alcune accorgimenti si possono prendere immediatamente, come ad esempio “adottare processi di recruitment e selezione basati su criteri misurabili, trasparenti ed equi, definire quote di genere sia per le short-list delle candidature, sia per la selezione di nuove figure, soprattutto in ruoli/mansioni ad alto tasso di gendergap, analizzare e rimuovere l’influenza dei bias di genere (e intersezionali) nella programmazione dei sistemi di intelligenza artificiale (IA) o nelle Learning Machine applicate allo screening dei CV o alle selezioni online, svolgere la fase di selezione dei CV per la creazione delle short-list dei candidati con modalità “blind” (cieca, Nda), in cui tutti gli indicatori personali (nome, genere, età, esperienza di lavoro, background educativo…) vengono rimossi in modo da scegliere i candidati solo in base alle skill ed utilizzare un elenco di domande standardizzate uguali per tutti i candidati e le candidate per la posizione aperta e proposte nello stesso ordine, così da assicurare che ogni candidato/a abbia la stessa opportunità di esporre le proprie qualifiche indipendentemente dal genere”. Ma è davvero possibile farlo? E soprattutto, vorremo farlo davvero?

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