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Molestie sul lavoro: intervista all’autrice del libro “Toglimi le mani di dosso”

Toglimi le mani di dosso. Una giornalista freelance, sotto lo pseudonimo di Olga Ricci, attraverso un libro accende i riflettori sul delicato ed oscuro mondo delle molestie sul lavoro. L’abbiamo intervistata.

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Sguardi indiscreti, battute allusive; barzellette a sfondo sessuale. Inviti a cena al profumo di opulenza, con contorno di ammiccamenti, conditi da sedicenti promesse di carriera. Infine, l’avance esplicita. La molestia. Accettarla, significa il più delle volte restare, ottenere un contratto vero all’interno di una redazione. Quel contratto così ambito, spesso dopo anni di precariato; e rifiutarla significa andare incontro alle ritorsioni, al demansionamento, alla perdita del posto di lavoro. Olga Ricci è una giornalista professionista, che insegue il sogno di entrare a far parte di una redazione con un contratto a tempo indeterminato; ma il Porco, il direttore della testata per la quale scrive, sembra avere altri progetti. Uscito nelle librerie a settembre 2015, ma frutto del lavoro raccolto su un blog nato tre anni prima, Toglimi le mani di dosso (ed. Chiarelettere) è una storia di ricatti e molestie sul lavoro, ma anche di una professionista competente in un mondo sessista e complicato, all’interno del quale è possibile emergere solo subendo il ricatto del Porco. Ne abbiamo parlato con Olga, oggi freelance o – come lei stessa ammette – precaria, se preferite.

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Cos’è la molestia sessuale oggi?

Come scrive Rosa Amorevole, consigliera di parità della Regione Emilia Romagna, nel decalogo finale del mio libro, sono molestie sessuali tutti i comportamenti di carattere sessuale non desiderati, che offendono la dignità di chi li subisce. Tra questi: insinuazioni e commenti equivoci sull’aspetto esteriore; osservazioni e barzellette che riguardano caratteristiche, comportamenti e orientamenti sessuali; materiale pornografico sul luogo di lavoro; contatti fisici indesiderati; avance in cambio di promesse e vantaggi; inviti indesiderati con un chiaro intento sessuale; ricatti sessuali; atti sessuali; coazione sessuale o violenza carnale.

Cos’è cambiato rispetto al passato?

Rispetto al passato non è cambiato nulla, almeno in Italia. Ci sono le leggi, ma quasi nessuna donna denuncia. Secondo l’ISTAT, il 99,3 per cento dei ricatti e delle violenze, psicologiche e fisiche, sul lavoro, non vengono denunciate.

Perché è sorta solo adesso la consapevolezza, che barzellette e commenti allusivi- considerati da sempre alla stregua di scherzi banali – rientrino adesso nel campo delle molestie sessuali?

Non mi sembra che ci sia una consapevolezza diffusa rispetto a questo problema in Italia. Per questo motivo ho aperto il blog Il Porco al lavoro (che ha ricevuto quasi 140mila visite) e ho scritto il libro. Le donne che mi scrivono dicono di avere acquisito consapevolezza attraverso il mio racconto. Molte non avevano mai raccontato a nessuno la propria storia.La consapevolezza c’è in altri Paesi, come gli Stati Uniti, nell’Europa continentale e nel nord Europa. Quando mi sono messa a studiare in inglese, ho scoperto che negli Stati Uniti sono quasi quarant’anni che si occupano del problema. Catharine MacKinnon, avvocata e attivista femminista americana, autrice di un testo fondamentale, Sexual Harassment of Working Women (Molestie sessuali sulle donne lavoratrici), non tradotto in italiano, ha impostato il quadro giuridico di riferimento negli Stati Uniti, per il riconoscimento delle molestie sessuali sul lavoro come reato. Secondo l’autrice, le molestie sono un sopruso e contribuiscono a mantenere le donne in una posizione subalterna. Non devono essere interpretate come “incidenti” isolati e personali, ma come un problema sociale, che riguarda le donne in quanto donne, cioè appartenenti al genere femminile. Per questo motivo, le molestie vanno considerate addirittura oltre l’abuso, l’umiliazione e l’oppressione di ciascuna vittima: costituiscono una vera e propria discriminazione sessuale, lesiva per tutta la società.

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Quanto è cambiata la percezione del problema da parte delle donne? E da parte degli uomini?

La percezione, in Italia, non è cambiata, rispetto al passato. Spero che cambi, anche grazie a questo libro, che si riesca ad aprire un dibattito serio sul problema.

Qual è il legame che unisce molestie sessuali e questione di genere? 

Per capire la complessità del meccanismo della violenza bisogna tenere conto del contesto generale, e cioè della composizione del mercato del lavoro. In Italia sono soprattutto gli uomini a gestire il potere e le donne a subirlo. Questo è evidente in politica, ad esempio, dove, secondo la ricerca di Openpolis per La Repubblica (pubblicata online il 7 marzo 2014), soltanto il 20% dei ruoli elettivi o di nomina è femminile. Su 106 sindaci di capoluogo di provincia, le donne sono 3 (nelle città di Ancona, Fermo e Alessandria). Per rappresentanza femminile in parlamento, in un confronto mondiale, l’Italia è 36esima, con il 31% di donne. Prima si posizionano, tra gli altri, Rwanda, Andorra, Cuba, Seychelles, Senegal, Nicaragua, Spagna. Una sperequazione che si ripropone anche nel giornalismo. Una ricerca dell’Fnsi, il sindacato dei giornalisti, indicava 5 donne a capo di un quotidiano, contro 113 direttori uomini. Numeri simili per i vicedirettori (5 donne e 99 uomini), i caporedattori (67 donne e 477 uomini) e i caposervizio (180 donne e 813 uomini). Una disparità che ha conseguenze pesanti sulla società in generale. Infatti, se nell’ambiente del giornalismo le donne sono subordinate, è difficile sperare che riescano a dare voce non soltanto alla propria discriminazione, ma anche a quella delle altre.

Dal tuo racconto emerge una forma di rimozione collettiva da parte di una società sessista. Da cosa è provocato, secondo te, questo revival sessista?

Non c’è nessun revival sessista. La società italiana è strutturalmente sessista, per ragioni storiche e culturali. Il sessismo diffuso emerge anche dagli indicatori internazionali, come ad esempio dal Gender Gap Report – che quantifica le disparità di genere in vari paesi del mondo, sulla base di quattro criteri: economia (si considerano salari, partecipazione e leadership), salute (aspettative di vita e rapporto tra sessi alla nascita), istruzione (accesso all’istruzione elementare e superiore) e politica (rappresentanza) – e che colloca l’Italia, per pari opportunità, al 69esimo posto su 136 Paesi. Uno degli indici peggiori in questo ambito riguarda la partecipazione delle donne nel mondo del lavoro (88esima posizione) e la retribuzione a parità di mansioni, per cui l’Italia è 129esima (nel 2014 una donna ha guadagnato il 48 per cento dello stipendio medio di un uomo). La posizione dell’Italia nella classifica che misura l’eguaglianza salariale percepita è molto bassa: 124esima su 136 paesi, e al di sotto della media mondiale.

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Cosa potrebbe infrangere la tendenza alla rimozione in atto? 

Credo che la questione della violenza sul lavoro dovrebbe essere affrontata dalle istituzioni insieme ad altre questioni urgenti che riguardano la discriminazione di genere. Qualche giorno fa l’ISTAT ha presentato alcuni dati alla Camera che fotografano una situazione inquietante: le donne in pensione percepiscono un importo medio mensile di 1.095 euro contro i 1.549 degli uomini. Inoltre il 30% delle donne occupate ha lasciato il lavoro dopo la gravidanza. Come si può continuare a tollerare questa discriminazione? Apriamo gli occhi e iniziamo a pensare ad azioni che abbiamo un impatto reale sulla società.

Quanto è cambiato lo scenario delle molestie con la crisi economica?

In Italia mancano dati aggiornati sul fenomeno della violenza sul lavoro. Per esperienza personale e dai racconti delle lettrici, mi sento di dire che la precarietà rende sicuramente la situazione più drammatica. Le donne che non accettano le avances del capo restano senza lavoro. È così per le freelance e sarà così anche per le dipendenti, con le nuove regole introdotte dal Jobs act.

Perché la divulgazione è l’unica arma che le donne hanno per difendersi? È realmente l’unica? 

Dopo che ho pubblicato il libro Toglimi le mani di dosso, mi hanno scritto molte donne, ringraziandomi e incoraggiandomi. Alcune mi hanno raccontato la loro storia. Spesso si tratta di situazioni più drammatiche di quelle descritte nel libro, che restano nascoste perché quasi nessuna denuncia. Sarebbe importante che il libro venisse letto anche dalle donne più giovani. Sono state cresciute credendo di avere le stesse possibilità lavorative degli uomini e, invece, devono sapere che non è così. La società italiana è ancora fortemente sperequata per quanto riguarda la parità di genere.

È realmente indispensabile la mediazione – e la tutela – offerta dal web?

La mediazione del web è necessaria quando non c’è supporto da parte delle istituzioni, dalle opinion leader e quando manca una narrazione del fenomeno. Quando ho incontrato i Porci al lavoro mi sono sentita sola e senza le parole necessarie per nominare quello che stava succedendo. Le uniche parole erano: sono solo lusinghe; che vuoi che sia un complimento; si sarà invaghito perché sei una bella ragazza; non prendertela, avrà voluto scherzare; sei pesante con questa storia, dai, succede a tutte; è così che va il mondo; è un’opportunità, sta a te coglierla o meno; ci sono anche quelle che se ne approfittano; è colpa di voi donne; sono in tante ad avere fatto carriera così; l’avrai illuso tu; che vuoi farci, lascia il lavoro; il lavoro non è la cosa più importante per una donna, fai un figlio; sei precaria, devi sopportare; non fare la vittima; le donne forti reagiscono, non si piangono addosso; se non riesci a superare questa storia, è perché non sei abbastanza forte; parlare di queste cose è da sfigata. Per mia fortuna, ho fatto tabula rasa di queste parole tossiche. E ne ho trovate di altre, di nuove, dopo avere studiato e dopo avere capito che non era colpa mia, quello che era successo, ma colpa di chi aveva commesso la violenza.

Toglimi le mani di dosso nasce dall’esperienza di un blog, Il porco a lavoro. Quando hai deciso di raccontare la tua esperienza attraverso un blog?

Quando mi sono trovata a ricominciare daccapo e, dopo avere studiato alcuni testi sulla parità di genere e sulla violenza nelle organizzazioni lavorative in inglese, ho scoperto che quello che avevo passato aveva un nome preciso: si chiama violenza sul lavoro. All’estero è un fenomeno studiato e combattuto. Da noi no. E ho deciso di raccontarlo.

In quale momento hai deciso di raccontare la tua esperienza attraverso un libro? Per quale ragione hai scelto proprio un libro?

Dopo che ho aperto il blog, alcune lettrici e lettori mi hanno scritto dicendomi che avrei dovuto farlo diventare un libro. Io non ci ho mai creduto, presa com’ero dal lavoro che non funzionava. Poi un giorno mi ha contattata l’editor di una grossa casa editrice. Mi ha spiegato che era incuriosita dalla mia scrittura. Chiedeva se avevo delle altre cose da mandare. Io però non avevo nulla, oltre a qualche migliaio di articoli di cronaca e alla storia che stavo scrivendo sul blog. Ma a lei la storia del Porco non interessava. Così non se n’è fatto niente. Passa un anno. Un giorno di dicembre, ricevo un’email da un lettore del blog che dice di chiamarsi Raffaele. Di mestiere fa lo scrittore e il giornalista. Mi scrive un messaggio incoraggiante e garbato, spiegando che il mondo del giornalismo è esattamente come lo descrivo io. Poi aggiunge: “senz’altro la tua testimonianza meriterebbe di essere ripresa in un libro, anche se difficilmente un grande editore avrà mai il coraggio di pubblicarlo”. La vigilia di Natale Raffaele mi manda un’altra email: “forse potremmo provarci insieme, a trovare un editore, e in cambio non voglio nessun invito a cena”. Mi mette in contatto con gli agenti letterari Marco e Claire, che mi ricevono nel loro ufficio di Milano. Mi chiedono se è vero quello che racconto e dicono che mi aiuteranno. Passano altri mesi. C’è una casa editrice interessata. È Chiarelettere. Decide di credere in me, vuole che la storia venga raccontata nel dettaglio, in tutti i suoi sviluppi, rispettando la mia decisione di usare uno pseudonimo. Senza queste persone il libro non ci sarebbe mai stato.

Hai riscontrato difficoltà dovute al sessismo in fase di pubblicazione?

Quando il libro è stato pubblicato ho avuto la conferma di quello che già sapevo: l’argomento di cui parlo è tabù a causa del sessismo diffuso. Ci sono stati giornalisti che hanno minimizzato, dicendo che ho esagerato, che queste cose tra uomini e donne sono sempre esistite. Frasi che fanno capire il livello di inciviltà della società in cui viviamo. Un’altra critica è stata quella di non avere fatto i nomi, incluso il mio, visto che uso uno pseudonimo. La mia è stata una scelta precisa e consapevole: fare un coming out con i nomi avrebbe significato compromettere il mio futuro per sempre nel mondo del giornalismo italiano, mettermi contro il sistema dei media, senza prove sufficienti a reggere possibili accuse per diffamazione. Io ho scelto di non darmi in pasto. Ho deciso di non auto-danneggiarmi. Ho imparato a non fidarmi dell’ipocrisia generale. In inglese c’è un nome anche per questo tipo di critiche: victim blaming.

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