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Perché alcuni dirigenti utilizzano parole difficili al lavoro

Le sigle e gli acronimi alla moda non sono sempre sintomo di preparazione e competenza. Anzi: chi ne abusa può avere un problema di autostima. Vediamo perché

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Parlare bene è una competenza importante, che va affinata soprattutto al lavoro. Ma sgombriamo il campo da fraintendimenti: parlare bene non vuol dire riempirsi la bocca di parole difficili o di sigle ed acronimi alla moda. Né tantomeno eccedere con forestierismi squadernati per compiacersi o impressionare. Chi si assume l’impegno di dirigere e coordinare un gruppo di lavoro deve avere le idee chiare in mente e deve impegnarsi al massimo per far sì che esse vengano correttamente recepite da chi le ascolta. Ecco perché alcuni dirigenti (soprattutto i più giovani) dovrebbero prestare maggiore attenzione al codice comunicativo che utilizzano al lavoro, mirando più all’autenticità che alla forma. Cosa vuol dire esattamente? Cerchiamo di capirlo, con l’ausilio di alcune riflessioni che abbiamo reperito qua e là sul Web.

Perché i manager usano un linguaggio differente al lavoro

Alcuni dirigenti diventano persone diverse, quando varcano la soglia dell’ufficio. Parlano in modo differente, si muovono in modo differente e appaiono ossessionati dalla smania di risultare sempre al passo coi tempi. Sia ben chiaro: nessuno punta l’indice contro quei manager che non possono fare a meno di ricorrere ad alcuni tecnicismi, ma quando la voglia di stupire supera la necessità di comunicare (e di farsi capire), allora qualcosa non va. Dell’argomento si è interessato il sito americano Experteer che, in un articolo intitolato “Perché i manager usano un linguaggio differente in ufficio”, ha posto sul banco degli imputati quei dirigenti che abusano di parole difficili e locuzioni arzigogolate da fare invidia ai poeti barocchi. Stando alla disamina fatta da Experteer, che ha chiesto il conforto di alcuni specialisti della comunicazione, ci sono almeno tre motivi che possono spingere i manager a comportarsi in questa maniera.

  • I dirigenti usano parole difficili perché pensano di risultare più bravi e competenti. Fare un uso disinvolto di termini come “skill”, “task”, “feedback” ecc… li fa sentire dei supereroi, in grado di maneggiare anglicismi che tradiscono (a loro giudizio) una preparazione indubitabile. E’ il classico errore in cui inciampa chi tende a dare più importanza all’involucro anziché al contenuto.
  • I dirigenti usano parole difficili perché tentano di camuffare la loro insicurezza. Utilizzare arbitrariamente parole ricercate può essere sintomo di insicurezza. Quando sono in difficoltà e “non sanno che pesci prendere”, alcuni dirigenti cercano di “agitare le acque” e dissimulare la loro impreparazione barricandosi dietro frasi ad effetto. Il linguaggio diventa, in questo caso, uno scudo che utilizzano per mettersi al riparo da ciò che temono non riusciranno a fare o a gestire bene.
  • I dirigenti usano parole difficili perché vogliono distinguersi dagli altri. Ricorrere ad espressioni che non appartengono al vocabolario degli interlocutori segna una distanza netta, che può dare origine a fraintendimenti e confusione. Porre delle barriere linguistiche tra sé e i propri dipendenti è quanto mai rischioso, ma certi manager, vinti dalla voglia di distinguersi e di marcare il loro ruolo dirigenziale, sembrano preoccuparsene poco.

Il successo dei forestierismi in Italia

Ci sono alcune considerazioni che il linguista Claudio Marazzini (presidente della prestigiosa Accademia della Crusca) ha esposto a proposito del successo che i forestierismi riscuotono in Italia. Sia presso i giovani che presso gli adulti e i professionisti. “Le ragioni per le quali in Italia si è tanto propensi al forestierismo – ha spiegato Marazzini – mi paiono le seguenti: manca il senso di identità collettiva che rende uno Stato saldo nella coscienza dei cittadini e manca una buona conoscenza della propria storia e della propria lingua tale da restituire il senso di appartenenza alla cultura nazionale”. 

Di più: “Il cittadino italiano, fuor che per il cibo, e anche per questo oggi meno di un tempo – ha osservato l’accademico – è non di rado una specie di apolide, anche se spesso svantaggiato e poco integrabile all’estero. Con queste basi e radici, i giovani sono facilmente pronti a staccarsi dalla realtà nazionale e a tagliare i ponti. Inoltre, la classe dirigente soffre di un altro vizio, che a sua volta favorisce il forestierismo: cambiare le parole costa poco o nulla e a volte dà l’illusione di aver cambiato le cose“.

Lo tengano bene a mente tutti quei dipendenti che rischiano di farsi manipolare dai loro dirigenti. I quali – in maniera più o meno consapevole e premeditata – mirano a celare idee e progetti deboli dietro etichette appariscenti o, peggio ancora, a non farsi comprendere fino in fondo. Occorre usare gli anglicismi con sobrietà taglia corto il presidente dell’Accademia della Crusca – cercando di discernere i casi in cui sono utili, in cui ci permettono di comunicare meglio con il mondo, e i casi in cui se ne può fare a meno con vantaggio per la chiarezza e la semplicità comunicativa”. Che, specie al lavoro, devono essere garantite e favorite con ogni mezzo. La lingua italiana dispone di un repertorio inestimabile di sfumature di senso: impariamo ad utilizzarla con maggiore consapevolezza e rispetto e a beneficiarne sarà anche il nostro lavoro.

Cosa suggeriscono gli esperti

Usare un linguaggio forbito al lavoro non è di per sé un peccato. Anzi: ogni professionista che si rispetti dovrebbe tendere ad acquisire una terminologia sempre più ampia ed appropriata. Così come ogni dirigente realmente interessato a far crescere la sua squadra dovrebbe tendere a stimolarla, anche dal punto di vista linguistico. Ma cerchiamo di essere chiari: la professionalità e la competenza non si misurano sulla scorta delle parole difficili che si pronunciano in ufficio, ma da quello che si sa fare e da come si riesce a comunicarlo.

Ecco perché, secondo gli esperti, occorre tutelare una propria identità linguistica (rinunciando alle formule abusate e alla moda) ed impegnarsi al massimo per far sì che ciò che si vuole trasmettere non venga svilito né tantomeno nobilitato in maniera immotivata. Occorre trovare la giusta quadra e puntare ad uno stile comunicativo chiaro, sobrio, efficace, centrato e quanto più personale ed autentico possibile. Chiamate le cose con il loro nome (senza rinunciare necessariamente all’eleganza dell’eloquio) e non girateci troppo intorno; anche gli argomenti più complessi possono essere esposti in maniera chiara e semplice. A patto che abbiate le idee altrettanto chiare in testa.

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