Il “nero” è una piaga forse ineliminabile cha affligge il mondo del lavoro. Chi lavora in nero ha spesso uno stipendio, se così si può chiamare, molto basso e non ha nessuna tutela. La stragrande maggioranza delle volte una situazione del genere non si verifica certo per scelta del lavoratore, tuttavia in un numero di casi non trascurabile succede anche questo. Ma perché chi lavora a volte sceglie di farlo in nero anche quando potrebbe avere un impiego regolare con tutte le protezioni previste? Cerchiamo di capirlo. Principalmente ci sono due situazioni per le quali si sceglie di lavorare in nero: se si percepisce un sussidio o se il lavoro in nero è, per così dire, il secondo.
I due casi sono molto diversi anche nelle conseguenze. Prima di tutto bisogna specificare che chi lavora volontariamente in nero può farlo solo con il benestare del datore di lavoro. Ovvero anche quest’ultimo decide che una situazione del genere conviene anche a lui, nonostante tutte le possibili conseguenze. Parlando sempre di conseguenze e riferendoci al lavoratore, esse sono molto diverse a seconda del fatto che si percepisca un sussidio o meno.
Lavoro nero e sussidi
Lavorare in nero non è di per se stesso un reato, ma se si percepisce un sussidio il rischio di essere incriminati per truffa ai danni dello stato o per falsità ideologica, ad esempio, è piuttosto reale (anche se non sempre è così). Il principio che sta alla base è semplice: se una persona dichiara di non avere abbastanza soldi per vivere, lo Stato interviene con il suo strumento principale, quello del sussidio. Esistono diversi tipi di sussidi, ma ognuno è comunque volto a sostenere chi non ce la fa, o comunque comunica alle istituzioni di non potercela fare da solo.
L’apparato statale eroga quindi una cifra mensile, anche se per un tempo limitato, alla persona che dichiara di non avere un lavoro (quindi un’entrata economica), sperando che il tempo della durata del sussidio sia sufficiente a fargli trovare un nuovo lavoro. Ovviamente se e quando la suddetta persona trova un nuovo impiego, deve comunicarlo allo Stato, che interrompe il sussidio e lo dirige verso qualcun altro, a sua volta bisognoso. Il sistema funziona fino a quando a qualcuno non viene in mente di percepire comunque un sussidio ma andare lo stesso a lavorare senza però comunicarlo a nessuno. A quel punto le sue entrate diventano due: quella statale ed il reddito da lavoro nero.
Il sistema così “spreca” soldi, nel senso che mantiene qualcuno che può invece andare avanti da solo perché ha tecnicamente un’entrata economica, togliendo teoricamente soldi a chi quell’entrata non ce l’ha e magari avrebbe bisogno di un sussidio anche più alto. Può anche capitare che il sussidio non arrivi a chi dovrebbe ed arrivi invece a chi non ne ha bisogno. Si tratta di distorsioni molto difficili da eliminare a causa del numero molto elevato di erogazioni basati forzatamente su parametri generalizzanti. E’ comunque chiaro che chi mette in atto uno stratagemma del genere ci guadagna almeno due volte, perlomeno fino a quando gli va bene. Prende i soldi da una parte e dall’altra e per giunta ha anche vari servizi gratis in quanto risulta tecnicamente povero. Lo Stato infatti in riferimento a determinati casi ha previsto anche una sanzione penale proprio per la gravità della condotta. Va anche detto che quando si viene scoperti, oltre all’interruzione del sussidio, si è anche tenuti a restituire il maltolto, pena l’espropriazione dei beni. Ma tutto questo non scoraggia comunque molte persone dall’intraprendere un simile percorso, purché grandemente rischioso.
Un’altra cosa da specificare è che l’operazione di richiedere un sussidio e lavorare in nero non è regolare nemmeno se il lavoro nero è involontario. Ovvero, se si trova solo un lavoro senza tutele contro la propria volontà, si può decidere di accettarlo o meno, ma se lo si accetta non ci si può comunque avvalere di un sussidio statale, al quale invece bisogna rinunciare. Questo perché nei fatti la volontà o meno di lavorare in nero è indimostrabile. Sostanzialmente non si può dire “ho chiesto il sussidio perché è vero che lavoro in nero, ma io vorrei un lavoro regolare”. E’ in pratica una scusa che non si può utilizzare, anche se magari è vera.
Il secondo lavoro
L’altro caso più conosciuto nel quale una persona decide di accettare un lavoro in nero è se quest’ultimo è una sorta di arrotondamento dello stipendio regolare. In questo caso non esiste una sanzione penale, ma si sta comunque facendo qualcosa di non permesso. Il primo lavoro insomma è quello con tutte le tutele del caso, ferie, contributi, malattia, infortuni, Tfr, e via dicendo. Il secondo lavoro è quello che serve a portare a casa qualche soldo in più. L’entità della cifra aggiuntiva è molto variabile perché dipende da che cosa si trova, da quanto tempo si ha disposizione per farlo, da quanto si viene pagati e dalla stabilità del lavoro stesso (quello in nero), ma è indubbio che sia comunque un grosso vantaggio da punto di vista meramente economico. Contrariamente agli impieghi disciplinati da un contratto regolare, se è vero che per il “secondo lavoro” non ci sono tutele, è anche vero che non ci sono esborsi non voluti. Se con il primo lavoro si guadagna 1500 euro netti, bisogna capire che la cifra totale sarebbe decisamente più alta, dalla quale però vengono tolte le tasse ed i contributi. Questo non succede nel caso del lavoro in nero, per il quale se l’entrata è 1000 euro, quelli entrano e nessuno li vede. Certo non ci saranno contributi per la pensione, ma si tratta di una buona cifra “cash” ottenuta nell’immediato di cui il lavoratore può disporre come e quando vuole. Hai detto niente, insomma. Questo guadagno immediato e nei fatti invisibile porta molte persone ad optare quando possibile per questa soluzione. Tutto vero, ma bisogna ricordarsi che non è comunque un’operazione regolare e in caso di problemi le cose potrebbero finire piuttosto male
Lavorare in nero è molto rischioso
Analizzati i due casi principali per i quali le persone scelgono di lavorare in modo irregolare, dobbiamo specificare ancora una volta che si tratta di una pratica molto rischiosa. Farlo perché si è costretti per potare a casa il pane potrebbe non escludere lo stesso da determinate conseguenze, ma si ha almeno la coscienza a posto, sostanzialmente si può spiegare che “beh, potevo fare solo così”. Diverso, molto diverso, è invece il caso di chi sceglie di farlo per ottenere un vantaggio economico aggiuntivo. In questo caso si decide deliberatamente di violare delle regole (nei casi previsti) per ottenere qualche soldo in più. Anche qui c’è inoltre da fare un certo discorso. Se è vero che si ottengono sodi veloci, è anche vero che lavorare senza tutele non è che sia poi questa grande trovata.
Ad esempio l’instabilità del lavoro è molto alta, infatti in una concezione allargata, dovrebbe essere considerato un lavoro povero, almeno quando è involontario. Uno potrebbe prendersi una settimana di vacanza e non ritrovare più il posto al suo ritorno. Il non avere contributi implica che durante l’età della pensione questa sarà bassissima e non è per niente detto che si possa comunque trovare un lavoro “integrativo” anche a quell’età. In più, se la propria posizione è sconosciuta al fisco, è sconosciuta anche all’Inps e all’Inail. Andare a lavorare quando si è malati aumenta la possibilità d’infortuni, ad esempio. Bisogna capire che le conseguenze sono spesso sostanzialmente a cascata e se una cosa va male, potrebbero andarne male altre tre o quattro, generando problemi di grande rilevanza, lunghi ed annosi da risolvere, ammesso che ciò sia possibile. Quindi un conto è farlo perché non si ha altra scelta, un altro è decidere volutamente di infilarsi in una situazione decisamente rischiosa per se stessi e per gli altri.