Non solo in Italia, dove però è fin troppo diffuso, esiste il maledetto fenomeno del lavoro povero. Ma cos’è esattamente? Si tratta di una dinamica per la quale le persone che lavorano sono comunque povere, cioè sotto la soglia di povertà dell’Istat, o sopra, ma molto vicine ad essa. Ciò nella pratica delle cose vuol dire che non arrivano a fine mese come dovrebbero. Ovvero o non riescono a mangiare in modo sano, oppure rinunciano a vestirsi, o a curarsi, o comunque a qualcosa che resta fondamentale nella vita di ognuno di noi. Ma perché esiste questo fenomeno? Le ragioni sono molteplici, cerchiamo di capirne qualcosa in più
Ci sono diversi “modi” in cui le persone possono lavorare ed essere comunque povere, alcuni legali, altri meno, fatto sta che in ognuno di questi casi il lavoro povero la fa da padrone e costringe i suoi protagonisti, che sarebbe meglio chiamare vittime, a privarsi anche dello stretto necessario, costringendo ad una vita veramente complicata, nonostante un posto di lavoro lo si abbia. Stiamo parlando in specifico del lavoro nero (che ovviamente non è legale), del lavoro part-time quando ne si vorrebbe uno full-time e del lavoro a contratto con soglie troppo basse.
Il lavoro nero
Nel primo caso la situazione non potrebbe essere più chiara. Chi lavora in nero porta effettivamente a casa una certa quantità di denaro, ma non ha alcuna tutela. Ovvero, non ha ferie, non ha malattia, non ha infortuni, non ha contributi (quindi niente pensione) e ovviamente non ha nemmeno tredicesima, quattordicesima e Tfr. Spesso la retribuzione per quanto riguarda questo tipo di “impiego”, che nemmeno può essere chiamato così, è molto bassa, al di sotto di ciò che dicono i contratti nazionali. Le persone vengono reclutate con l’opzione “o questo o niente”. Ovvero in mancanza di meglio, se vuoi mangiare accetti il lavoro in nero, altrimenti insomma, arrangiati. Chi non trova nient’altro ovviamente non può fare altro che cedere, finendo per essere costretto ad accettare condizioni di lavoro del tutto illecite. La povertà che ne deriva è sia di breve che di lungo termine. Ovviamente la retribuzione è quasi sempre bassa perché sfuggendo ai controlli dello Stato nessuno obbliga il datore di lavoro a pagare il giusto. In più non avendo praticamente nessun diritto anche i soldi totali sono molti meno. Niente tredicesima e quattordicesima significa due mensilità in meno all’anno. Niente Tfr, vuol dire niente soldi per la liquidazione. In più, niente contributi vuol dire niente pensione, quindi anche quella sarà estremamente bassa. Ciò significa che il lavoro povero ha conseguenze dirette anche sul periodo della vita in cui non si lavora più.
Un’altra questione da chiarire è il perché il lavoro nero sia un lavoro povero a prescindere: è pur vero che anche senza alcun diritto qualcuno potrebbe percepire una cifra di, ad esempio, 1200 euro al mese, tecnicamente molto lontana dalla soglia di povertà ufficiale. Però il problema è che non esistendo tutele, quello è un tipo di lavoro che questo mese c’è ed il prossimo non si sa. O per meglio dire, questa settimana c’è e la prossima boh. Per non considerarlo lavoro povero bisognerebbe dare per scontato che sia comunque un posto stabile pur senza l’esistenza dei diritti fondamentali del lavoro, ma è letteralmente impossibile ragionare in questo modo per la natura stessa del lavoro nero. Se in un mese si guadagnano 1200 euro ma il mese dopo nulla, quella cifra andrà divisa in (almeno) due mesi. Ed è così che si arriva alla soglia di povertà, o si va sotto di essa.
Esiste poi un tipo di lavoro nero che potremmo chiamare “ibirdo”. Non è propriamente un lavoro nero perché qualche diritto lo si ha, ma non tutti. In questo caso il datore di lavoro paga tredicesima e quattordicesima, ma magari si dimentica di Tfr e contributi (è un esempio), magari non paga la malattia, o le ferie. Si ha quindi qualcosa, tra quello che la legge pretende, ma non tutto. E’ un danno economico minore, ma è comunque un danno. E non da poco. Ovviamente bisogna considerare anche chi col lavoro nero fa il furbo percependo un sussidio statale e lavorando volutamente in nero. Questo è però un altro discorso che andrebbe affrontato in altra sede. E si tratta comunque di percentuali piuttosto basse della popolazione lavoratrice.
Ma come si risolve il problema del lavoro nero? Eliminarlo del tutto è probabilmente impossibile in quanto i controlli da fare sarebbero così tanti e così frequenti che lo Stato non riuscirebbe mai ad avere a disposizione un numero di ispettori così alto da garantire la scomparsa del fenomeno. Con dei controlli frequenti e mirati si può però ridurre di molto il fenomeno, andando a verificare situazioni che letteralmente “si sa” che potrebbero nascondere casi di lavoro nero. Senza scendere nel dettaglio, esistono molti studi basati su dati in grado di identificare i settori più a rischio. Un’altra operazione da fare, più di lungo periodo sarebbe quella di, letteralmente, formare, sia i lavoratori che i datori di lavoro, portando a conoscenza dei primi i vantaggi di avere un mestiere in regola e pretenderlo ad ogni costo, non sottovalutando così le conseguenze di lungo periodo. E contestualmente spiegando ai secondi esattamente quali potrebbero essere le conseguenze (soprattutto quelle penali), ad esempio, di un infortunio di un lavoratore che sta operando in nero. Bisognerebbe insomma cercare negli anni di mettere in atto un vero e proprio cambiamento culturale.
Il part-time involontario
Tra chi è vittima del lavoro povero ci sono anche alcuni di quelli che lavorano part-time, in specifico molti di quelli che lo fanno contro la loro volontà. Ovvero un conto è scegliere un tempo parziale per esigenze ad esempio di famiglia, un altro è trovare solo quello, cioè non riuscire a operare a tempo pieno. In questo caso le persone possono guadagnare cifre variabili, che arrivano anche a più di 800 euro, ma ci sono contratti, del tutto regolari la cui cifra garantita è magari di 400. Ovviamente in questo caso dipende da che tipo di part-time è, in specifico di quante ore si tratta. Ma è chiaro che chi vorrebbe guadagnare 1000 e guadagna la metà è vittima del cosiddetto lavoro povero, ovvero pur lavorando ed anche in maniera regolare, non riesce a soddisfare le esigenze primarie, cosa che non avviene per sua scelta ma perché sostanzialmente il part-time è l’unico posto che è riuscito a trovare. Come nel lavoro full-time, anche nel parziale esistono molti contratti con retribuzioni significativamente differenti. Quindi il non trovare un tempo pieno non fa cadere di per sé la persona nel lavoro povero, perché la retribuzione oraria e le ore lavorate potrebbero essere sufficienti a soddisfare almeno la sussistenza. Il problema è però il “potrebbero”, perché potrebbero anche non riuscirci.
Il full-time povero
Se per quanto riguarda il part-time il discorso è complesso, per il full-time la cosa è molto più semplice. Ci sono lavori a tempo pieno perfettamente regolari che a causa della retribuzione oraria troppo bassa, non riescono comunque a garantire una cifra adatta alla sussistenza. A volte essa la si raggiunge lavorando al giorno molte più ore di quel che si dovrebbe, ma si tratta comunque di un lavoro povero. Non sono poche le segnalazioni che indicano come alcuni contratti prevedano retribuzioni lorde di 5 euro l’ora. Ciò non è illegale, anzi. In questo caso i lavoratori hanno tutti i diritti di cui devono godere (ferie, malattie, contributi, tfr, infortunio), ma il salario è comunque troppo basso. Questo porta appunto ad aumentare l’orario di lavoro quando possibile, oppure a cercarsi un secondo lavoro, magari non regolare, per arrotondare le entrate e fare in modo di garantire dignità economica alla propria vita ed eventualmente a quella dei propri familiari.
Quali soluzioni?
Se per il lavoro nero il discorso è a parte, per quanto riguarda quello regolare di lavoro le soluzioni che potrebbero portare ad una significativa riduzione del lavoro povero sono essenzialmente due. Una è sostenuta dall’attuale governo, l’altra dall’opposizione. Va detto che anche se lo scontro politico è molto acceso, le due soluzioni non sono per nulla in contrasto l’una con l’altra. La prima è quella che riguarda l’aumento dei salari attraverso lo strumento della contrattazione collettiva. Quindi l’operazione da fare sarebbe quella di rivedere al rialzo i contratti nazionali che non garantiscono la sussistenza attraverso un orario di lavoro normale (le classiche 8 ore al giorno per cinque giorni, per fare l’esempio più diretto). Questa soluzione indubbiamente è giusta ma ha comunque dei limiti: il primo è che esistono alcuni lavori che non sono disciplinati dai contratti nazionali e che quindi andrebbero analizzati caso per caso, questo sarebbe un lavoro molto lungo e complesso che potrebbe portare a poco. Quindi alcuni lavori rischierebbero di fatto di restare esclusi da una simile operazione. Il secondo limite è ancora più immediato. Un contratto regolare di 5 euro lordi l’ora, tramite contrattazione potrebbe passare a 6 o a 7, ma difficilmente si alzerebbe di più. Ciò risolverebbe parzialmente il cosiddetto problema della sussistenza, ad esempio chi lavora part-time in maniera involontaria avrebbe più o meno le stesse magagne da affrontare. La questione ruota intorno ad una sorta di definizione allargata di lavoro povero, ovvero di non interpretare questo solamente come quello che non garantisce la soglia ufficiale di sussistenza. Se uno guadagna 700 euro al mese, con i prezzi correnti farà comunque molta fatica ad arrivare a fine mese, anche se il suo stipendio supera la soglia di povertà assoluta (circa 675 euro al Nord, 475 al Sud, per l’anno 2021, secondo l’Istat).
La seconda soluzione è quella del molto dibattuto salario minimo. Proposto unitariamente dalle opposizioni si tratta di una misura che alzerebbe, per così dire di colpo, le retribuzioni di tutti i contratti, impedendo che essere scendano sotto una soglia minima oraria. In Italia si è molto parlato di fissare questa soglia a 9 euro (lordi), in Germania ad esempio è 12. Se ciò accadesse, i contratti a 5 euro l’ora di cui sopra passerebbero direttamente a 9. Ciò comporterebbe alcuni altri problemi, ma è anche ovvio che una soluzione perfetta non potrà mai esistere. L’impedimento di scendere sotto una certa cifra chiaramente non comporterebbe l’abbassamento dei contratti verso quella stessa cifra quando questi risultino superiori. Di conseguenza si tratterebbe semplicemente di una sorta di garanzia minima per ogni lavoratore.
Come è facile capire la contrattazione collettiva ed il salario minimo non sono due cose opposte. La riduzione o addirittura la sconfitta del lavoro povero può essere raggiunta attraverso entrambi gli strumenti, se utilizzati insieme in maniera sapiente. E’ vero che il secondo escluderebbe la prima, ma va detto che difficilmente si riuscirà ad introdurre una misura che letteralmente “raddoppi” alcuni contratti. Si potrebbe invece approntare un provvedimento iniziale di salario minimo più basso di 9 euro, a salire nel tempo e nel mentre raggiungere salari dignitosi attraverso la contrattazione collettiva, che resterebbe comunque fondamentale per la soluzione delle controversie su contratti superiori al salario minimo.