La recente sentenza n. 9887/2020 da parte della Corte di Cassazione è intervenuta sul tema della responsabilità professionale medica e sull’onere della prova, sancendo che quest’ultimo ricade sul paziente nel caso in cui costui domandi un risarcimento dei danni subiti in seguito a un intervento che non avrebbe voluto fosse effettuato nel caso in cui fosse stato coerentemente informato. Dunque, per gli Ermellini spetta proprio al paziente dimostrare che è stato violato il suo diritto ad autodeterminarsi, espresso attraverso la manifestazione del consenso. Nell’ipotesi in cui pertanto il paziente lamenti il fatto che non avrebbe voluto sottoporsi all’intervento, o che avrebbe voluto essere sottoposto all’intervento ma con uno specialista diverso, spetterà a lui dimostrare di aver ricevuto una informativa errata, carente o incompleta.
Il caso
Il caso su cui la Suprema Corte si è espressa trae origine dalla domanda di risarcimento avanzata da un paziente nei confronti di una struttura sanitaria e di un medico che ha raccolto il proprio consenso informato su un intervento chirurgico che avrebbe dovuto risolvere i problemi avvertiti al polso, nella necessità di mettere tuttavia in considerazione il rischio di poter perdere fino al 30% della funzionalità dell’articolazione.
L’intervento, eseguito senza errori di natura tecnica imputabili al personale medico, e nel rispetto dei protocolli e delle linee guida sanitarie, ha tuttavia ricondotto il paziente in una situazione ben spiacevole, con conseguente perdita della funzionalità del polso nella misura fino al 70%.
Dinanzi a un simile scenario il paziente si vedeva tuttavia respinta la domanda di risarcimento da parte della Corte d’Appello, alla quale aveva proposto ricorso per poter ottenere un’indennizzo del danno subito, in un contesto di scorretta informazione sui rischi che avrebbe dovuto correre.
I CTU, in sede di processo, hanno infatti evidenziato come il paziente prima dell’intervento soffrisse già di una riduzione della funzionalità del polso di un terzo, e che dopo l’intervento la funzionalità dell’articolazione aveva perso i due terzi delle capacità. Da quanto sopra ne deriva che la riduzione prospettata dal medico in sede di consenso informato, con il rischio condiviso di una perdita di funzionalità pari a un massimo del 30%, era di poco inferiore rispetto alla perdita effettivamente riportata dopo l’operazione, che secondo i CTU ammontava al 34%.
La violazione del diritto di autodeterminazione
Dinanzi alla posizione della Corte d’Appello, il paziente decide tuttavia di ricorrere in Corte di Cassazione lamentando una serie di motivi quali:
- la scarsa considerazione sulla mancanza di esausitività del consenso informato, che non sarebbe dunque stato adeguatamente supportato da tutte le informazioni che il paziente avrebbe dovuto ottenere per poter esprimere una decisione pienamente consapevole;
- la posizione del medico che, a detta del paziente, si era espresso in maniera troppo ottimistica sull’esito dell’intervento, finendo così con il condizionare il paziente e violare il suo diritto all’autodeterminazione;
- la richiesta di risarcimento che è determinata non sull’esito dell’intervento stesso, quanto sulla violazione del diritto di autodeterminarsi da parte del paziente;
- la mancata valutazione da parte dei giudici di Appello di fatti che sono risultati poi determinanti nella considerazione del caso, come ad esempio il fatto che il personale sanitario avesse prospettato come principale esito dell’intervento il miglioramento della funzionalità dell’articolazione del polso. Di contro, come risulta evidente da quanto riportato dai CTU, in realtà l’intervento avrebbe pesantemente aggravato lo stato di salute dell’articolazione del polso. Ne deriva che la perdita della funzionalità prospettata dal medico quindi deve essere interpretata in termini assoluti, e non dunque in termini incrementativi rispetto alla condizione di invalidità preesistente.
L’onere della prova
La Corte di Cassazione non sembra tuttavia appoggiare le motivazioni del paziente e, anzi, rigetta il suo ricorso con la pronuncia n. 9887/2020. In particolare, per quanto concerne il consenso informato e la sua presunta mancata esaustività, gli Ermellini sostengono come la riduzione della funzionalità dell’articolazione del polso nella misura del 30%, come condivisa come potenziale dal personale sanitario, è in realtà stata coincidente con il difetto che già interessava il paziente che si è sottoposto all’intervento.
Per quanto poi attiene il secondo motivo del ricorso, con cui il paziente lamentava un atteggiamento eccessivamente ottimistico del medico, tale da condizionarlo circa la valutazione del da farsi e da nuocere la sua libertà di autodeterminazione, la Suprema Corte afferma come tale sia inammissibile, poiché carente di specificità.
In altri termini, per i giudici della Corte il paziente non può sostenere che non si sarebbe sottopsoto all’intervento nel caso in cui fosse stato informato coerentemente, o che magari avrebbe ritardato l’operazione o che avrebbe preferito rivolgersi a un altro medico, perché questa valutazione costituisce un elemento integrante dell’onere della prova del nesso eziologico tra l’inadempimento e l’evento dannoso.
Per i giudici, insomma, gli elementi alla base dell’istanza di risarcimento per la lesione del diritto ad autodeterminarsi, determinata da una informativa non completa e non corretta, non può prescindere dalla prova che il paziente, nel caso in cui invece fosse stato pienamente informato, avrebbe magari scelto di non sottoporsi all’intervento.
Per la Corte di Cassazione, si legge nelle motivazioni della sentenza, l’omessa informazione ha un carattere di natura neutra sotto il profilo eziologico, perché la rilevanza causale dell’inadempimento dipende strettamente dall’alternativa consenso/dissenso, in grado di qualificare questa omissione se, nell’ipotesi di presunto consenso, l’inadempimento risulterebbe privato di ogni impatto sull’esito negativo dell’operazione, poiché comunque desiderata dal paziente.
Per quanto infine concerne il quarto motivo di lamentela da parte del paziente, per gli Ermellini è inammissibile a causa di un documento che era già stato valutato dai giudici territoriali, e la richiesta di conseguire una nuova valutazione di merito non è evidentemente ammessa in tale sede di legittimità.
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