Niente ferie e malattie pagate e paghe al di sotto della soglia minima: sono queste alcune delle lamentele mosse dai legali ingaggiati da un sindacato britannico.
La fortuna di Uber non accenna a fermarsi. Ma la crescita dei profitti va di pari passo con l’aumentare dei problemi legali. Come ormai tutti sanno, l’azienda fondata più di 6 anni fa a San Francisco ha ideato un servizio di trasporto automobilistico che, attraverso l’utilizzo di una semplice applicazione, consente di mettere in collegamento diretto autisti e passeggeri. Un servizio agile e innovativo, che ha messo in seria difficoltà i tassisti di tutto il mondo, che parlano insistentemente di concorrenza sleale. Anche per questo, la Uber deve periodicamente vedersela con proteste più o meno accese. Ma non solo: a dare qualche grattacapo ai vertici di San Francisco sono anche le cause legali intentate contro l’azienda. L’ultima arriva dal Regno Unito dove i giudici cercheranno di dirimere una questione nodale. Spiegando se, a loro avviso, i conducenti della Uber debbano essere considerati dipendenti o liberi professionisti.
A intentare la causa, per conto di un sindacato inglese che rappresenta due autisti Uber: James Farrar e Yaseen Aslam, è stato lo studio legale Leigh Day. Secondo cui, in estrema sintesi, il colosso americano non riconosce ai suoi conducenti i diritti minimi che devono essere garantiti ai lavoratori. Nello specifico: quello che i legali lamentano è la mancanza delle ferie pagate, la negazione della retribuzione in caso di malattia e le trattenute sulla paga, considerate illegittime, quando il servizio registra lamentele da parte dei clienti. Non solo: secondo l’accusa, la Uber non corrisponde, ai guidatori, il livello minimo salariale. “La mia paga è spesso più bassa del minimo nazionale”, ha dichiarato James Farrar. Che riferendosi alla sua attività, ha aggiunto: “Non mi considero un libero professionista, ma un dipendete di Uber”. E come tale, vorrebbe che gli venissero riconosciuti dei diritti.
Non la pensa allo stesso modo la Uber che, attraverso Jo Bertram, general manager del Regno Unito, ha spiegato: “La ragione principale per cui le persone scelgono di collaborare con noi è che possono diventare capi di loro stessi e lavorare in maniera completamente flessibile“. La versione dell’azienda, insomma, è che i guidatori possono gestirsi l’attività liberamente (in base alla loro disponibilità), scegliendo chi accompagnare a destinazione e quando mettersi al volante. Una condizione che, secondo la Uber, esclude automaticamente la possibilità che gli stessi autisti vengano considerati alla stregua di regolari dipendenti. Di tutt’altro avviso l’avvocato Annie Powell: “Questa causa – ha spiegato – è di vitale importanza per le migliaia di autisti inglesi e gallesi e avrà ripercussioni ancora più grandi. Stiamo assistendo a una insidiosa erosione dei diritti dei lavoratori, dal momento che le aziende tendono a derubricarli a liberi professionisti per evitare di pagare loro le ferie e di garantire il minimo salariale”.
Il caso del Regno Unito è, come già detto, l’ultimo di una lunga serie. Molti tribunali americani si sono, infatti, già occupati di questioni simili. E se, nella maggior parte dei casi, i giudici degli States hanno di fatto stabilito che gli autisti Uber debbano considerarsi “indipendent contractors” (liberi professionisti), la Commissione per il Lavoro della California ha, invece, sparigliato le carte affermando che ai guidatori che collaborano con la Uber debbono essere riconosciuti alcuni diritti tipici dei dipendenti di un’azienda. Della questione si sono anche occupati alcuni ricercatori della New York University secondo cui: “l’algoritmo con cui Uber gestisce i suoi autisti si configura come forma di controllo e di sorveglianza sui lavoratori”. Di più: “Il sistema di valutazione che si avvale dei voti degli utenti (e che può costare il posto di lavoro agli stessi guidatori, ndr) – hanno rimarcato gli studiosi americani – è un sostituto del controllo aziendale diretto”. Le opinioni discordanti potrebbero prefigurare nuove dispute in tribunale per il colosso di San Francisco.
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