Gli aumenti contrattuali retroattivi possono essere richiesti anche dagli ex dipendenti, ovvero da quei lavoratori che non sono più in servizio? Alla domanda ha risposto la recente sentenza n. 29906/2021 della Corte di Cassazione, con i giudici che ricordano come per poter escludere la retroattività degli aumenti stabiliti da un nuovo contratto collettivo ai lavoratori cessati dal servizio prima della conclusione dell’intesa, è necessario che le parti sociali provvedano espressamente a limitare questo vantaggio ai soli lavoratori che sono presenti in organico.
Il caso
Per comprendere come si sia arrivati a tale valutazione è possibile sintetizzare brevemente il caso all’attenzione dei giudici, che trae origine dal ricorso di un dirigente, non più in organico in un’azienda, per ottenere le differenze di retribuzione maturate in un quadriennio come effetto dell’applicazione del nuovo contratto collettivo, e i conseguenti aumenti previsti dal CCNL.
Contro tale posizione si schiera l’azienda, che deduce invece la non debenza di queste somme, oggetto di decreto ingiuntivo, sottolineando come il rapporto di lavoro sia stato cessato prima della firma del rinnovo contrattuale che ha previsto e introdotto gli incrementi di retribuzione richiesti.
I giudici della Corte d’Appello hanno accolto il ricorso del dirigente, sancendo che se il CCNL stabilisce delle clausole che sono migliorative ad efficacia retroattiva allora il suo contenuto è valido anche nei confronti del personale che era in servizio nel periodo di riferimento anche se non risultava più essere in organico al momento della firma del nuovo accordo.
La decisione in Cassazione
La vicenda giunge così in Cassazione. Gli Ermellini supportano la decisione stabilita in Appello e, peraltro, evidenziano come il dirigente fosse aderente a un sindacato, dando mandato alla stessa organizzazione per la sottoscrizione di un nuovo contratto. Pertanto, il lavoratore ha ben diritto affinché siano applicate le clausole insite tale intesa, anche nel caso in cui la sottoscrizione del contratto fosse posteriore rispetto al momento in cui, invece, la sua relazione di lavoro è giunta al termine.
Quanto sopra, per i giudici della Suprema Corte, è subordinato al fatto che le parti che hanno sottoscritto il contratto abbiano espressamente attribuito allo stesso un’efficacia retroattiva e non vi sia stata alcuna distinzione tra i dipendenti che sono ancora in organico e quelli che invece non risultano più essere in servizio alla data della stipula dell’intesa.
Dunque, per poter arrivare una conclusione differente rispetto a quella che sopra è stata prospettata, sarebbe necessario che le parti sociali, nell’esercizio della loro autonomia collettiva, avessero previsto nel rinnovo contrattuale che gli incrementi della remunerazione, pur riconosciuti in retroattività, fossero in realtà attribuibili in modo espresso ai soli dipendenti che risultavano essere in organico al momento del rinnovo contrattuale, e non dunque anche a quei dipendenti che invece risultavano aver cessato il proprio rapporto di lavoro al momento della sottoscrizione.
Considerato che questa seconda ipotesi non è sussistente nella fattispecie concreta, i giudici della Cassazione hanno rigettato il ricorso della società, confermando il diritto del dirigente a ricevere le somme che aveva richiesto quale frutto dell’applicazione retroattiva degli aumenti contrattuali.
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