Alla protesta dei cosiddetti Forconi, si sono uniti sin da subito gli autotrasportatori. Per capire il perché, viene da dire, basta prendere in mano i dati snocciolati dalla “solita” Cgia di Mestre, che mese dopo mese fotografa con puntualità l’andamento dei vari settori produttivi. In quello del trasporto, di settore, hanno chiuso 16.000 imprese in poco più di 4 anni, vale a dire dal primo trimestre del 2009 al terzo del 2013. Sul territorio sarebbero attive ancora 93.000 imprese, in grande maggioranza di natura artigiana. Con una media di poco più di 4 addetti per ogni impresa, la Cgia stima un’occupazione di settore che varia tra i 350.000 e i 400.000 posti di lavoro.
I motivi principali di una simile decimazione, nonostante la grandissima parte delle merci in Italia viaggi attualmente su gomma sono sostanzialmente riassumibili in uno solo: Il costo di esercizio. I cosiddetti “padroncini”, hanno dovuto sostenere costi sempre più alti, dovuti più che altro all’aumento di tasse e carburante. In quest’ultimo caso va considerato che l’esborso per un “pieno” di un mezzo pesante non è per nulla paragonabile a quello di un’auto anche di grossa cilindrata. Un serbatoio di un “Tir”, esattamente uguale a quelli che in questi giorni si possono vedere fermi in strada per protesta, può contenere anche 600 litri, o di più. E spesso, dati i chilometri quotidianamente percorsi e l’entità del consumo (all’incirca 3km al litro, ma a dire il vero dipende da diversi fattori in combinazione tra loro), è necessario riempire il suddetto serbatoio tutti i giorni o quasi. E’ comprensibile quindi come un pur minimo aumento del carburante pesi in maniera sicuramente significativa, ma talvolta anche devastante, sul bilancio aziendale.
Non è però solo il gasolio ad incidere sui costi di esercizio. Più in generale, secondo uno studio del Ministero dei Trasporti (risalente al 2011, quindi di due anni fa), l’Italia avrebbe il costo chilometrico più alto d’Europa, 1,546 euro. In Romania, nello stesso anno era poco più della metà, 0, 887, giusto per prendere i due casi agli estremi della scala. Se ragionare per paragoni serve a rendersi conto delle differenze con gli altri Paesi, il cuore del problema non è certo lo spread di costo tra una nazione e l’altra, ma il costo in sé, perché è proprio quello che il padroncino è costretto ad affrontare per tenere in piedi la sua attività. E se non ce la fa, chiude, per il semplice fatto che non ha altra scelta.
Secondo il segretario Cgia Giuseppe Bortolussi, al quale è effettivamente difficile dare torto, altri fattori molto importanti in merito sono le “enormi spese per la copertura assicurativa ed i pedaggi autostradali”. In questo senso, se nel periodo di riferimento il gasolio per autotrazione è aumentato del 55,7%, i pedaggi autostradali avrebbero subìto anch’essi un incremento non certo trascurabile, superiore al 17% dal 2010 a novembre 2013. Se è vero che per alcune categorie di mezzi il titolare può richiedere dei parziali rimborsi per le accise sul gasolio e per i costi autostradali, è però altrettanto vero che quando i costi totali sono afflitti da un aumento costante e non bilanciato da un analogo aumento delle entrate, si finisce per non avere più alcun margine di guadagno, o per averlo così basso da rendere più “conveniente” (se non obbligatoria) la chiusura, o comunque una forte limitazione dell’attività.
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