Home » Legge ed economia » diritto del lavoro

Il contratto a tempo determinato è giusto?

Il contratto a tempo determinato è una forma irrinunciabile, ma ne va impedito l’abuso.

Condividi questo bel contenuto


Il Governo ha recentemente eliminato alcune causali che disciplinano il contratto a tempo determinato. Questo vuol dire che, nei casi previsti, non sarà necessario per il datore di lavoro indicare la ragione di un’assunzione non a tempo indeterminato sul contratto. Una volta era così, poi una riforma precedente aveva introdotto le causali, che ora sono sì rimaste, ma in modo limitato. Il contratto a tempo determinato è da sempre oggetto di molti contrasti per la sua natura di modalità a termine. Sostanzialmente le persone vengono assunte per un periodo preciso, poi il contratto o viene rinnovato o la collaborazione finisce. Ma è giusto agire in questo modo? Cerchiamo di capirlo.

Detto che al mondo di giusto o sbagliato in senso assoluto non c’è quasi mai niente, sul problema del contratto a tempo determinato si scontrano da sempre due visioni opposte. La prima è sostenuta perlopiù (ma ormai non solo) dai datori di lavoro, la seconda dai lavoratori. Nel primo caso si sostiene che la forma del tempo determinato sia per un’azienda irrinunciabile, per una moltitudine di ragioni. Ad esempio che non sempre è possibile prevedere con certezza le esigenze di produzione, ma anche che quest’ultima ha dei picchi che si verificano in determinati periodi dell’anno e che possono necessitare di risorse aggiuntive di cui però non si ha bisogno costantemente. Un’altra ragione è quella per la quale azienda e dipendente devono conoscersi. Se il secondo ha bisogno di un posto fisso, la prima non può sapere immediatamente quanto la persona sia affidabile ed è per questo che viene quasi sempre previsto sia un periodo di prova che un altro tempo, più lungo, in cui di prove non ce ne sono, ma l’azienda può comunque lasciare a casa il dipendente dopo qualche mese.

Anche se nel mercato del lavoro attuale ormai un buon numero di lavoratori vuole anch’esso il tempo determinato per esigenze sue, la grande maggioranza di questi ultimi aspira, talvolta pretende, il cosiddetto posto fisso. La ragione è piuttosto semplice. Le persone hanno famiglie da mantenere e non possono permettersi chiari di luna, quindi una volta svolto il periodo di prova, se lo si è superato, non c’è nessuna ragione di continuare ad avere una sorta di spada di Damocle sulla testa per la quale dopo 3, 6, 12 mesi si possa restare a casa con l’ingrato compito di doversi cercare un altro posto. La ricerca insomma è quella di una stabilità che a dire dei lavoratori farebbe felici sia loro che l’azienda, che si ritroverebbe personale esperto e affidabile tra le proprie forze, cosa che garantirebbe ottimi livelli produttivi.

Come è facile notare queste due visioni della questione si scontrano in più punti. Ma allora chi ha ragione? Entrambi, verrebbe da rispondere. Come sempre la verità sta nel mezzo e se da una parte è vero che ci vuole stabilità e che questa aiuta anche la produzione in vari modi, dall’altra è altrettanto vero che un mese o due di prova possono non bastare per conoscere una persona e che non sono poi così rari i casi di gente che, per usare un’espressione gergale “attacca il cappello”, ovvero si adagia sugli allori di un posto fisso non garantendo più le prestazioni iniziali. Se i datori di lavoro devono assolutamente capire che il posto fisso, non solo sostiene la produzione a mero livello di lavoro, ma l’aiuta anche dal punto di vista dei consumi, ovvero più uno sa di avere un’entrata fissa, più sarà portato a spendere, chi è dipendente deve comprendere che una volta raggiunta tale stabilità, dovrà comunque impegnarsi sempre al massimo, altrimenti se tutti se ne fregassero quella stessa stabilità verrebbe messa a rischio dai mancati risultati aziendali.

Il punto è quindi trovare l’equilibrio. Il tempo determinato è indiscutibilmente una forma di contratto fondamentale per gestire le risorse umane, non si può pretendere che tutti siano stabilizzati sempre e comunque. Ciò che non va bene è invece l’abuso immotivato di questa forma. Ovvero, se l’azienda ha la necessità ed il dipendente è bravo, lasciarlo a casa dopo svariati rinnovi per assumerne un altro che faccia esattamente la stessa cosa, ad esempio allo scopo di pagare meno tasse, non è certo una maniera indovinata di sostenere il livello globale della produzione aziendale. Perché è vero che si pagheranno meno tasse, ma anche vero che meno persone avranno un posto fisso, meno queste stesse persone spenderanno in cose non necessarie, visto che avranno il problema di risparmiare per la loro sussistenza. Ragionando per assurdo, in un mondo dove nessuno spende, la produzione sarebbe quasi del tutto inutile, se non per il sostentamento primario, che però non si capisce chi potrebbe finanziarlo. Un mondo dove la produzione non serve equivale alla fine dell’economia di mercato e quindi, sostanzialmente, dell’imprenditoria.

Condividi questo bel contenuto
× Eccomi!