Seconda parte del focus sull’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Il ruolo delle agenzie e la formazione nelle imprese.
Recentemente abbiamo pubblicato un focus sull’incontro tra domanda e offerta di lavoro, o per meglio dire sulle ragioni tecnico-numeriche per le quali esso non avviene così spesso come dovrebbe, inficiando i livelli occupazionali. Questi ultimi infatti, restano spesso bassi non solo per una mancanza strutturale del lavoro in sé, ma anche perché sul mercato ci sono decine di migliaia di lavoratori, magari anche bravissimi, che però hanno caratteristiche e competenze che non corrispondono alla domanda di lavoro delle aziende. Proviamo a fare un altro passo: perché queste “caratteristiche e competenze” non corrispondono? Bella domanda. Come accennato nel precedente post le ragioni sono quantitativamente incalcolabili, ma qualcosa, pur di assolutamente parziale, si può dire lo stesso.
Indice
Incontro tra domanda e offerta: le agenzie del lavoro
Come è fin troppo noto, il livello di disoccupazione in Italia non è certo trascurabile. 12% sul totale di chi cerca e ben oltre il 40% per quanto riguarda il lavoro giovanile. Tale situazione è “colpa” di una serie concatenata di eventi e cambiamenti incontrollabili e non prevedibili avvenuti negli ultimi decenni, ma certamente la poca adiacenza tra cosa chiedono le imprese ad un lavoratore e cosa questo lavoratore sa fare di suo ha anch’essa una certa rilevanza. In questo contesto, in Italia soprattutto si tende spesso a dare la colpa alle agenzie del lavoro, ovvero enti privati specializzati il cui compito è proprio fare da tramite tra la domanda di lavoro e l’offerta. Ciò di cui ci si lamenta maggiormente è che le suddette agenzie non siano in grado di fare ciò che dovrebbero: “mai un colloquio in un anno”, “sono iscritto a tutte le agenzie ma non mi hanno mai chiamato”, tra i commenti più benevoli ritrovabili sotto gli articoli dei siti di settore, fino ad arrivare al più pessimistico “è tutta una truffa” e l’impietoso ed onnipresente “non sanno fare il loro lavoro”.
Non è proprio così, o perlomeno non si può certo fare di tutta l’erba un fascio. Non è questione di difendere una qualsiasi agenzia del lavoro o il sistema in generale, non è questo il punto. Il punto invece è che se un’azienda contatta la tal agenzia chiedendo di cercare un lavoratore “con laurea specialistica e master, max 27enne e con esperienza almeno biennale nel campo”, per quanto siano rigidi questi criteri, un’agenzia non può certo permettersi di non rispettarli. Come dire, il cliente ha sempre ragione. Di conseguenza, se un candidato ha due lauree e un master,26 anni e mezzo ma un’esperienza di un anno e otto mesi (pur fatta durante il conseguimento di laurea e master) , anche fosse il migliore sulla piazza, potrebbe comunque non essere preso in considerazione. L’esempio è forse un po’ esagerato ma calza. Chi scrive (anche se certo non è il migliore sulla piazza) anni fa si sentì dire qualcosa di molto simile. Ma se il criterio deciso dall’azienda è “due anni”, quello è e quello rimane.
Può esistere poi, ovviamente, una certa flessibilità. Se all’agenzia del lavoro il candidato sembra valido può proporlo comunque all’azienda anche in mancanza di uno o più requisiti, ma tutto comunque dipende da quest’ultima, la prima infatti non può certo imporre un candidato, in nessun modo. Anche tutto questo rientra nel mancato incontro tra domanda e offerta, perché il lavoratore di prima potrebbe probabilmente ricoprire degnamente quel posto, che invece rimarrà vacante per chissà quanto ancora a causa della rigidità dei criteri decisi dall’azienda che perpetra la domanda di lavoro. Quest’ultima, va anche detto, ha tutto il diritto di agire così. Alla fine è lei che paga.
Le aziende non investono più nella formazione
Quante volte abbiamo sentito dire questa frase? “Le aziende non investono più nella formazione”. Si parla più che altro della formazione in inserimento . L’affermazione non è sempre vera ovviamente, ed anzi, spesso è vero il contrario, ma in alcuni casi si può ragionevolmente sostenere che gli investimenti aziendali nella formazione iniziale del personale sono notevolmente diminuiti. Un tale cambio di rotta è, in una certa percentuale, sia causa che conseguenza del mancato incontro tra domanda e offerta di lavoro. E’ una causa: perché se un’azienda non forma il suo personale, o lo trova già perfettamente formato o non assumerà nessuno, rinunciando (nel secondo caso) a commesse che incrementerebbero il fatturato. Questo per il fatto che non c’è nessuno sul mercato in grado di gestire quelle commesse (o quei servizi, a seconda dei casi). O almeno così pensa la suddetta azienda.
E’ una conseguenza: perché la mancata formazione del personale in azienda limita di fatto le skills di chi ha già lavorato (in un’azienda che non forma) e per una qualche ragione si ritrova in seguito a cercare nuovamente lavoro. Se lo cerca nel campo in cui ha già operato (che è solitamente la cosa più ovvia e redditizia da fare), ecco, in quel campo avrebbe potuto saperne molto di più, soprattutto a livello pratico. Non essendo stato formato “sul campo”(scusateci il noioso gioco di parole), a quell’individuo in cerca di un nuovo lavoro sono state precluse una serie di possibilità e di opportunità, che sarebbero state tradotte in conoscenze e competenze. Un bug di questo tipo si riversa su un curriculum meno ricco ed interessante e quindi meno appetibile.
Fin qui il “brutto” problema che riguarda chi il lavoro lo cerca. Però, il concetto per il quale chi invece il lavoro lo offre venga spesso uniformemente percepito come un mostro cattivo pronto a fare solo profitti sfruttando al massimo la crisi (quindi una sovra-domanda di lavoro) le leggi (le numerose tipologie di contratti precari) e anche le competenze (talvolta di alto livello) già acquisite dai lavoratori (pagando pochissimo questi ultimi), va combattuto. Perché sostanzialmente, non è vero. Certo, gli imprenditori senza scrupoli esistono (ma esistono dappertutto, mica solo in Italia), ed esistono anche quelli che “se ne fregano” della cosiddetta giustizia sociale. Ce ne sono molti altri però, che faticano incredibilmente a trovare un compromesso accettabile tra la sopravvivenza della loro azienda e l’attenzione ai dipendenti che in quell’azienda lavorano.
Proviamo a spiegarci meglio: un’impresa non è sempre in grado di formare il proprio personale, almeno per due ragioni. Per prima cosa tale pratica ha un costo che, a seconda del settore di operatività, può essere decisamente rilevante e che soprattutto le aziende di dimensioni medio-piccole possono non essere materialmente in grado di affrontare in modo formale. Insomma, ipotizzando concettualmente la frase di un qualsiasi imprenditore: “il dipendente lo assumo e lo formo io, ma non posso fargli fare i corsi giusti perché per la mia azienda costano troppo e poi se non è sveglio e impara più che può da solo sono costretto a cambiarlo, perché altrimenti vado in malora e allora addio anche a quelli già formati di dipendenti”.
Secondo: spesso, molto spesso è il lavoro stesso a non permettere di formare adeguatamente i dipendenti. Esempio: Il cliente quel servizio lo vuole domani, anzi no, oggi e lo vuole svolto a regola d’arte, altrimenti penali su penali. Ora, in un’azienda c’è chi il lavoro già lo conosce e chi invece deve impararlo. E’ ovvio che quest’ultimo, non è certo colpa sua, mai potrà svolgere un servizio che non conosce ancora a regola d’arte. Il che significa che solo chi quel servizio lo padroneggia perfettamente sarà in grado di accontentare il cliente “pretenzioso”. Ma il dipendente già formato, o forma il neo-assunto o svolge il servizio. In alcuni casi è possibile fare le due cose contemporaneamente, ma in altri proprio no. Chiariamo, non è questione di “scusare” o peggio giustificare le imprese che risparmiano sulla formazione dei dipendenti, è questione invece di chiarire che tali “risparmi” a volte sono obbligati dalle contingenze e l’imprenditore di turno è costretto letteralmente a sperare che il neo-assunto sia in grado di cavarsela anche senza aver usufruito di una formazione, per così dire, “perfetta”. In tempi di crisi accade anche questo. E allora si ritorna al discorso di cui sopra. Un’azienda, legittimamente, può decidere di non arrischiarsi in un simile labirinto. Preferirà quindi non assumere (e non investire, né in persone, né in strumenti), piuttosto che trovarsi ad affrontare costi ben poco sostenibili. Anche da qui, passa il mancato incontro tra domanda e offerta di lavoro.
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