Il lavoratore che è assente per depressione può allontanarsi dal domicilio per distrarsi un po’ senza incappare nel licenziamento.
Con la sentenza n. 9647/2021 della Corte di Cassazione, i giudici illustrano che il dipendente assente per malattia a causa di un disturbo depressivo può uscire di casa per distrarsi. Un simile comportamento non sarebbe pertanto qualificabile come un comportamento non compatibile con il proprio status di malato. E, secondo la pronuncia degli Ermellini, non sarebbe in grado di pregiudicare la guarigione del lavoratore e il suo rientro nel luogo di occupazione.
Dunque, il licenziamento che era stato comminato per la violazione degli obblighi di diligenza, di fedeltà e di buona fede, è stato dichiarato non legittimo. Il lavoratore – concludono gli Ermellini – deve essere reintegrato sul luogo di lavoro e risarcito.
Il caso
In breve, un dipendente si era rivolto al Tribunale per contestare il licenziamento irrogatogli dal datore di lavoro perché, durante le sue assenze per malattia, avrebbe tenuto una condotta che il datore ha ritenuto essere non compatibile con il proprio stato di malattia. La domanda del dipendente, finalizzata a dichiarare il licenziamento non legittimo, oltre al riconoscimento dei danni e la reintegra nel suo posto di lavoro, viene accolta dal Tribunale.
A quel punto il datore di lavoro ricorre in appello, ma la Corte conferma la decisione di prime cure perché dal certificato medico presentato dal lavoratore emerge una diagnosi di episodio depressivo, con una prescrizione di 15 giorni di riposo e di cura. Considerato che si tratta di una patologia neurologica, e che i comportamenti del dipendente non sono stati intesi essere una simulazione della malattia, il licenziamento è illegittimo.
Depressione e malattia, si può uscire di casa
Il datore di lavoro, però, non ci sta. E ricorre dunque in Cassazione lamentando una serie di motivi rigettati, ancora una volta, dai giudici della Suprema Corte. Ma per quali motivi?
I giudici della Suprema Corte sottolineano innanzitutto come quando il dipendente è interessato da una malattia che gli impedisce di lavorare, non significa che il lavoratore sia nella condizione di non poter svolgere qualsiasi altra attività.
In particolar modo, l’attività che viene svolta al di fuori del contesto lavorativo, durante il periodo di malattia del dipendente, risulta essere contraria ai doveri di correttezza e di buona fede solamente se tale attività fa presumere l’inesistenza di una patologia, o nel momento in cui la stessa rischia di pregiudicare il rientro al lavoro.
Esaminando la fattispecie alla propria attenzione, il giudice della Corte di Cassazione ha invece ritenuto come il comportamento del dipendente sia stato del tutto coerente con la diagnosi del suo stato di ansia e depressione, sebbene sia meno grave di quello che era stato inizialmente oggetto di diagnosi, in qualità di depressione maggiore.
Tuttavia, gli Ermellini evidenziano anche che questa diagnosi “eccessiva” non è stata il risultato di un progetto fraudolento da parte del dipendente, e che il comportamento del lavoratore non è stato affatto incoerente con gli obiettivi di una guarigione puntuale, o di ostacolo all’evoluzione positiva della malattia.
Considerato quanto sopra, i giudici della Suprema Corte confermano le decisioni dei giudici territoriali respingendo il ricorso del datore di lavoro.
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