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Cosa procura più stress: lavorare o non lavorare?

La mancanza di un lavoro è sempre fonte di intenso stress, ma a volte anche lavorare può rivelarsi deleterio per la nostra salute mentale! Secondo sempre più specialisti, un po’ di sana inattività allevia lo stress e ci rende più produttivi al lavoro.

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Come abbiamo già analizzato in precedenza, c’è lo stress buono e quello cattivo, quello che serve da stimolo a fare sempre meglio e quello che può rendere la vita un inferno. Riconoscerlo e gestirlo è la chiave per venirne a capo, ma non sempre è così semplice. Così come non è facile dirimere il nodo amletico che ha messo in moto un dibattito animato tra psicologi del lavoro e specialisti vari. Tale dilemma si concentra su una domanda apparentemente banale: si è più stressati lavorando o non lavorando?

Essere stressati dal lavoro: un must attuale

Essere stressati al lavoro è un must dei nostri giorni. Basta dare un’occhiata alle facce tirate che si incontrano, la mattina, nei vagoni della metro o sugli autobus per rendersi conto che la maggior parte delle persone che si recano al lavoro lo fa controvoglia. Stare male in ufficio (o in fabbrica o nell’esercizio in cui lavoriamo) significa caricarsi di un “peso” quotidiano gravoso che, a lungo andare, può compromettere i rapporti personali e inficiare gli affetti più intimi. Le cause del malessere (tanto fisico quanto mentale) possono essere tante.

Quando si è stressati dal lavoro

Di norma, siamo stressati al lavoro quando abbiamo la percezione che non riusciremo mai a portare a termine gli incarichi che ci sono stati assegnati, quando non ci sentiamo “tagliati” per la mansione che ricopriamo (o perché troppo difficile o perché, al contrario, troppo semplice e svilente) e quando abbiamo rapporti tesi con il capo o i colleghi. O, più banalmente, quando veniamo pagati (a volte anche poco) per fare una cosa che proprio non ci piace.

Ed è qui che sta uno dei nodi fondamentali della questione. Per essere “salutare” (ovvero per procurare un certo benessere), il nostro lavoro – a detta di medici e specialisti – dovrebbe attraversare quattro fasi:

  • quella dell’eccitazione,
  • dell’esecuzione,
  • dell’appagamento,
  • del riposo.

Cosa vuol dire? Che quando il nostro superiore ci comunica quello che dobbiamo fare (o, nel caso di lavoratori autonomi, quando pensiamo al prossimo progetto da realizzare), la forte motivazione dovrebbe innescare un meccanismo virtuoso che ci porta a fare bene il nostro lavoro e a sentirci gratificati, a conclusione di tutto, arrivando così sereni allo step finale che dovrebbe sancire il meritato riposo. Uno scenario irrealistico, nella maggior parte dei casi.

Lavoro o inattività? Cosa è meglio

Lo stress che attanaglia sempre più lavoratori ha spinto qualche “addetto ai lavori” a sostenere tesi avventurose, come quella del ricercatore americano Andrew Smart che, nel 2014, ha consegnato alle stampe un libro intitolato: “Pilota automatico, l’arte e la scienza del non fare nulla”. La Bibbia dei fannulloni? Non proprio. Nel suo testo, lo studioso ha cercato di difendere la causa del “dolce far niente”, intesa non come accidia passiva, ma come inattività produttiva. Per essere più chiari: Smart ha spiegato che quando siamo inattivi (ossia non lavoriamo), il cervello innesca una sorta di “pilota automatico” che gli consente di essere creativo e di focalizzarsi sulle emozioni. E che può  portare l’inconscio – che prende il sopravvento – a farci pronunciare il famoso “Eureka” (di archimediana memoria) che spiana la strada ad illuminanti intuizioni.

In definitiva: cosa procura più stress, lavorare o non lavorare? Difficile a dirsi. A rigor di logica, a noi pare che non avere un lavoro risulti, di gran lunga, più dannoso, logorante e invalidante a livello mentale. Ma a ben guardare, anche il lavorismo o workaholism e il lavoro che non concede mai una soddisfazione possono portarci sull’orlo di una crisi di nervi. Oggi, d’altra parte, c’è maggiore consenso sul fatto che la settimana lavorativa “corta” (lavorare 4 giorni a settimana) possa rendere il lavoro più produttivo. La soluzione, come quasi sempre accade, sta nel mezzo. Scegliere – quando è possibile – un impiego che non ci costringe a contare le ore che ci separano dal rientro a casa e che ci concede il giusto tempo da dedicare al riposo o alla vita personale, può tenerci a distanza di sicurezza dal lettino dello psicologo.

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