Il reato di maltrattamenti in famiglia scatta anche quando il marito impedisce alla donna di soddisfare le proprie ambizioni lavorative. Vediamo la pronuncia della Corte di Cassazione.
Una donna non può lavorare per colpa del marito, che le impedisce di accedere alla professione? Secondo quanto afferma una recente sentenza della Corte di Cassazione (49997/2017), un simile comportamento potrebbe configurare un reato di maltrattamenti in famiglia, poiché tale è la commissione se il coniuge pone in essere ai danni della moglie delle condotte abituali che hanno come finalità quella di impedire alla donna di svolgere delle attività lavorative.
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Donne in carriera e maltrattamenti in famiglia: cosa dice la sentenza
Nella fattispecie di cui si è occupata la Suprema Corte con la pronuncia sopra rammentata, l’uomo imputato avrebbe posto in essere una serie di comportamenti aggressivi, in una prima fase contro oggetti e complementi d’arredo domestici, e solo in un secondo momento direttamente sulla moglie, alla quale aveva rivolto delle minacce di morte, delle percosse e diverse reazioni piuttosto irose.
Secondo la ricostruzione effettuata, il motivo determinante di un simile comportamento sarebbe stato il riferimento ai continui impegni lavorativi della propria moglie, che secondo l’uomo non sarebbero stati compatibili con la relazione di natura familiare. La stessa donna, peraltro, temendo di subire delle aggressioni durante le ore notturne, era stata sostanzialmente costretta a trovare rifugio presso alcuni parenti e, in un secondo istante, a dover ricorrere ad affittare un’altra casa.
Per quanto attiene l’aspetto probatorio, gli Ermellini si sono espressi nel secondo che sotto tale profilo non potrebbero trovare applicazione le regole di cui all’art. 192 co 3 cpp alle dichiarazioni della persona offesa, le stesse potranno comunque porsi autonomamente a fondamentale della conferma di una responsabilità penale da parte dell’uomo, previa la verifica della credibilità soggettiva della donna e l’attendibilità del suo resoconto. Sulla base di tali considerazioni, i giudici deducono che le dichiarazioni della donna relativamente alla sussistenza del reato varrebbero come piena prova ai fini della determinazione della responsabilità penale dell’uomo.
I maltrattamenti in famiglia
Ricordiamo che nell’ordinamento giuridico italiano il reato di maltrattamenti in famiglia è disciplinato dall’art. 572 cp “maltrattamenti contro familiari e conviventi”.
La norma punisce chiunque, al di fuori dei casi di cui all’art. 571 cp (ovvero, all’abuso dei mezzi di correzione o di disciplina), maltratta una persona della famiglia (o comunque una persona convivente) o una persona che è sottoposta alla sua autorità o viene a lui affidata per questioni legate alla sua eduzione, alla sua istruzioni, o ancora alla sua cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte.
Con tale lettera normativa, è chiaro che l’art. 572 cp intenda come possibili soggetti passivi (cioè, come vittime dei maltrattamenti) una lunga serie di persone. Inoltre, si tenga conto che la natura intrinseca della condotta non è stata definita in maniera puntuale dalla legge, e che dunque – come abbiamo visto nel caso in esame della Cassazione – lascia sostanzialmente un ampio margine di azione alla libera valutazione del giudice.
Ad ogni modo, l’opinione prevalente della dottrina – peraltro supportata da quella giurisprudenziale – porta a pensare che si possa considerare come azione di maltrattamento ogni complesso di atti di prevaricazione, di vessazione o di oppressione, che sia reiterato nel tempo e che sia tale da produrre nella vittima una sofferenza apprezzabile di natura fisica o morale, o che sia in grado di apportare pregiudizio al soddisfacente sviluppo della stessa personalità.
Di qui, la congrua valutazione degli Ermellini, che hanno considerato come il comportamento reiterato del marito, finalizzato a impedire la soddisfazione lavorativa della donna, possa essere configurabile come maltrattamento in famiglia.
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