Il significato più profondo dell’essere un medico. Lavorare coi malati di Alzheimer vuol dire curare un paziente impossibile da guarire. Ma ottenere piccoli miglioramenti resta una gioia immensa. Intervista all Dott.ssa Sara Fascendini.
La professione del medico è indubbiamente tra le più complesse ed articolate in senso assoluto. Chi però si occupa di persone affette da demenza ed in particolare dei malati di Alzheimer è necessariamente una figura particolare, diversa dalla maggior parte degli altri medici. Per lavorare coi malati di Alzheimer bisogna possedere, anche sul piano umano, qualità caratteriali in un certo senso uniche. Lo ha spiegato a Bianco Lavoro Magazine, nei minimi dettagli e con una passione decisamente rara da trovare, la Dott.ssa Sara Fascendini, responsabile del reparto Alzheimer del Ferb di Gazzaniga (Bg).
Un’intervista lunga e complessa quella rilasciata dalla Fascendini a Bianco Lavoro Magazine, che sviscera e mette in luce una miriade di aspetti nascosti della professione di medico-chirurgo legata all’assistenza degli anziani malati. Aspetti che vanno da quelli più prettamente psicologici a quelli più concreti e pratici e dei quali, “da fuori”, è straordinariamente difficile rendersi conto. I contenuti dell’intervista sono a nostro avviso profondamente istruttivi, soprattutto pensando ad un giovane che, in procinto di intraprendere la carriera del medico, si trovi ad affrontare il dilemma di quale specializzazione scegliere.
Partiamo dalla formazione, qual è la sua?
Io sono medico-chirurgo, specialista in geriatria. Al giorno d’oggi chi si occupa di questo tipo di problemi sono prevalentemente i neurologi, i geriatri e gli psichiatri. Abbiamo tre tipi di formazione molto diversi. Io, da geriatra, mi sento di dire che è la figura più adatta perché prende in considerazione l’intera persona umana, perché ha un approccio olistico, ovvero non focalizzato sul singolo organo. E poi basta dire che la stragrande maggioranza di persone con demenza fa parte della categoria degli anziani, per cui il geriatra riesce ad occuparsi in toto dei problemi della persona anziana, compreso il decadimento cognitivo. Altra cosa importante: qui dentro noi siamo un’equipe, tre geriatri e due neurologi. La figura del neurologo, che storicamente si è sempre occupata di demenza, ha più un approccio legato alla diagnosi, quindi un percorso diagnostico, dalle prime fasi della malattia alla prescrizione della terapia.
Questo perché è più legato ai meccanismi del cervello?
Sì esatto, gli aspetti biologici, i meccanismi molecolari. In realtà dico sempre che la malattia di Alzheimer è un percorso nella vita di una persona, che non si esaurisce con la diagnosi, ma anzi, comincia proprio da lì. E il geriatra si occupa anche dell’assistenza lungo il percorso della malattia. Poi comunque bisogna vedere uno a cosa è interessato. Se propende per l’aspetto scientifico e diagnostico allora la sua strada è neurologia, se invece è più interessato alla cura, la geriatria è la disciplina più adatta.
Come si entra in un centro d’eccellenza? Come si arriva “qui”?
Beh, per quanto riguarda l’interesse medico, qui siamo tutte persone che abbiamo avuto interesse nel campo da moltissimi anni. Io prima di arrivare qui lavoravo in una grossa Rsa, ma anche lì ero responsabile dei nuclei Alzheimer (strutture interne alle Rsa appositamente allestite per la gestione ottimale dei malati di Alzheimer), l’interesse era focalizzato sulle demenze. Quando poi l’interesse diventa così specifico, uno cerca di occuparsi solo di quello. E’ un po’ il lato positivo, ma anche quello negativo. Noi siamo “iperspecialisti” della materia. Dopodichè ho fatto un colloquio otto anni fa, sono andata bene e mi hanno assunto. Questa è una fondazione, quindi non c’è un concorso. Per la Rsa in cui lavoravo invece il concorso l’ho sostenuto, perché appunto era una struttura pubblica.
Perché ha scelto di occuparsi dei malati di Alzheimer?
Bella domanda. Da sempre l’interesse è stato verso la persona anziana. Ho scelto di fare il medico probabilmente quando avevo 5 o 6 anni. E ho scelto di fare geriatria da subito, dai primi anni di medicina. Non so bene il perché, è una cosa che ti viene da dentro, anche perché la geriatria non è una specialità né di moda né tanto gettonante. E’ una specialità di nicchia, anche se ci occupiamo di tantissime persone. Bisogna avere forse una sensibilità particolare. Io non avrei mai fatto la pediatra. Con le persone anziane mi sono sempre trovata bene, mi sono sempre stati a cuore i loro interessi, la loro salute, Forse mi sono sempre stati a cuore gli interessi della persona fragile in toto e l’anziano lo è per definizione. La persona anziana con demenza è il più fragile tra i fragili. E appunto è un interesse che è partito da subito. La mia tesi è stata sulla malattia di Alzheimer. Da lì mi si è aperto un mondo. Era il 1996 e le conoscenze non erano così ampie. Ho cominciato un percorso di formazione che inizialmente mi ha portato ad occuparmi non solo di quello, ma della persona anziana in generale, poi andando avanti sono riuscita a fare quello che volevo.
Soddisfazioni: dal punto di vista medico, quali sono? L’oss ad esempio riceve un abbraccio da un paziente ed è la persona più felice del mondo, capita anche ai medici?
Facciamo tutti parte di un’equipe, quindi la soddisfazione umana all’interno di un progetto riabilitativo è comune a tutti. Dal punto di vista del medico però, è difficile, tant’è che tantissimi colleghi non capiscono la nostra scelta e ti dicono “io non farei mai il tuo lavoro”. Le faccio questo esempio che secondo me è molto calzante: io ho un carissimo amico cardiochirurgo, che ha una mamma malata che io curo da anni. Lui non ha mai capito il mio lavoro e non ha mai capito perché lo faccio. Le dirò di più, lui mi dice sempre: “ i miei pazienti escono dalla sala operatoria e, o sono guariti, o sono morti, tu questa cosa non ce l’hai”. E’ il dilemma di confrontarsi con la malattia cronica.
Tu non puoi aspettarti né di guarire la persona né di ottenere risultati strabilianti. Quello che noi facciamo qui dentro, che ha valore e che forse all’esterno non si capisce completamente, è ricostruire un percorso all’interno della malattia. Noi seguiamo migliaia di pazienti in ambulatorio, di queste migliaia ne ricoveriamo un paio di centinaia ogni anno. Questi ultimi sono quelli che hanno perso la via, che a casa non sono più gestibili. Il nostro compito è quello di ricostruire il miglior percorso possibile, che non vuol dire guarire dalla malattia, né che tornano come prima, vuol dire ricostruire una strada e dare loro il miglior benessere possibile, sia al malato che al familiare. Come medico, devi sapere confrontarti con questa roba, sennò ti spari.
Cioè?
Pensi a come siamo messi. Non ci sono farmaci in grado di bloccare la malattia, ma solo di rallentarla. I farmaci che usiamo nove volte su dieci non funzionano e quando funzionano hanno degli effetti collaterali importanti. Quindi noi dobbiamo confrontarci tutti i giorni con la malattia cronica, puntiamo sui piccoli benefici quotidiani. Dobbiamo avere in mente il benessere globale, del paziente, della sua famiglia, degli amici, di tutti. E’ un duro compito che non ti darà mai… ecco, non è come fare un’operazione, “stava morendo e l’ho salvato”. Io sono figlia di un neurochirurgo e di un’assistente sociale. Ho messo insieme l’essere medico e il curare la relazione con le persone, che poi è ciò che mi dà la soddisfazione maggiore. Devi essere soddisfatto di quelle cose lì, se pensi di guarire la gente non devi fare questo mestiere.
I compiti specifici del medico?
La diagnosi e la terapia ovviamente sono le prime due cose, quelle che vengono in mente a tutti. In realtà come le dicevo prima sono solo l’inizio. Molto più importante è quello che segue…
E che cos’è che segue?
La costruzione di una relazione col paziente e la presa in carico, globale. Quello che noi facciamo qui dentro è seguire l’ammalato dalla diagnosi in poi. Mi rendo conto che detta così sembra quasi che noi non facciamo diagnosi, in realtà siamo un centro d’eccellenza e di diagnosi ci occupiamo a tutto tondo. Però non ci dimentichiamo del paziente in tutte le sue fasi. Le persone ricoverate qui possono essere gravi, meno gravi, lievi. Quindi è: la diagnosi, la terapia e la presa in carico. In una parola, la cura.
Il coordinamento con le altre figure: come funziona?
Seguendo la metodologia geriatrica, il lavoro è sempre multidisciplinare e di equipe. Certo, il medico è la figura che coordina ovviamente. Il nostro è un approccio multi-professionale e la collaborazione non è verticale ma circolare, ma anche nel circolo c’è sempre una figura che tira le fila, che è quella del medico, perché mette insieme le informazioni, si costruisce un progetto riabilitativo individualizzato sulla singola persona, che poi si porta avanti tutti insieme. Nella pratica questa cosa viene fatta attraverso le riunioni d’equipe. Settimanalmente ne facciamo una, con una rivalutazione globale di ogni singolo paziente. Ognuno dice la sua e poi si prendono le decisioni. Un’altra cosa che mi piace dire è che la cura va prima pensata e poi agita. La pensiamo tutti insieme e poi la mettiamo in pratica. Non esistono cose spot o che qualcuno faccia qualcosa di cui gli altri non siano a conoscenza. Neanche le scelte terapeutico-farmacologiche che faccio io sono solo mie. Le faccio io perché sono un medico, ma le condivido con gli altri operatori.
Queste scelte possono essere influenzate da quello che dicono gli altri operatori?
Assolutamente sì. Io scelgo la terapia farmacologica in base alle conoscenze mediche che possiedo, ma se le altre figure, dall’oss all’infermiere, anche quella che fa i mestieri mi dice: “guardi che io ho osservato la persona e si comporta così e così…”, assolutamente. Il lavoro del medico non è mai slegato dalle altre figure, anche perché sennò fai dei casini allucinanti. Dopo è chiaro che la scelta e la responsabilità della stessa è del medico, però l’opinione di tutti viene assolutamente presa in considerazione. Anzi, sono loro che stanno più a contatto con l’ammalato, lo sono 24 ore su 24.
Che frequenza ha il contatto medico-paziente?
Quotidiana, ma devo ammettere che a volte è un po’ meno. In una struttura come questa la figura del medico deve essere molto flessibile, si trova a fare cose che solitamente non le competono. Le faccio un esempio: io sono un medico, ovviamente ho un miliardo di cose da fare, ovviamente mi occupo di ricerca scientifica e faccio visite ambulatoriali, ovviamente faccio cose che le altre figure non fanno. Prima passavo, mi ha fermato un malato che si chiama Mario, lui ovviamente mi vede come una figura uguale alle altre. Mi ha fermato dandomi del tu e mi ha detto: “guarda che io però mi sono sporcato qua, non mi piace, c’ho una macchia sulla camicia”. Io ho preso una spugnetta e ho pulito la camicia. Ok? Devi essere disponibile a fare anche quello, quindi anche cose che non competono strettamente al tuo ruolo. E’ lì che si costruisce la relazione. Devi essere disponibile a costruire una relazione di qualità. Altrimenti fai un buco nell’acqua.
Dal punto di vista di un medico, quanto contano le informazioni dei parenti? E che tipo di informazioni arrivano?
Contano tantissimo. A volte vanno filtrate perché sono informazioni viste con gli occhi di un familiare e quindi con emotività, però sono fondamentali. Noi le raccogliamo e le mettiamo insieme, perché alla fine sono loro (i parenti, Nda) i detentori dell’assistenza, sono loro che hanno vissuto con il malato e lo hanno conosciuto anche quando non lo era. E’ vero che vanno filtrate, però sono cruciali. Noi costruiamo un progetto riabilitativo basandoci anche sulla storia della persona. Noi dobbiamo sapere chi era, cosa faceva, cosa gli piaceva, quali erano i suoi interessi, quali erano le sue reazioni rispetto alla vita.
Consiglierebbe questo lavoro ad un giovane medico?
Assolutamente sì. Allora, io sono uno dei pochi medici che consiglia alle persone di fare medicina, perché secondo me è un lavoro molto bello e gratificante, quindi se uno si sente portato, la facoltà di medicina secondo me è splendida, perché ti permette di fare un sacco di lavoro di diverso tipo. Dal più scientifico a quello più legato al paziente, alla relazione, all’aspetto tecnico. Per quanto mi riguarda lo rifarei mille volte, perché io sono molto gratificata dal lavoro che faccio, forse non lo consiglierei a tutti, nel senso che uno deve sapere confrontarsi con la cronicità e quindi sapere a cosa va incontro rispetto a quello. Non sei un chirurgo che guarisce un intestino, è un lavoro diverso, devi anche saperti confrontare con i risultati piccoli e poi essere almeno un minimo portato per la relazione. Minimo… neanche tanto, perché altrimenti non va bene. Secondo me non va bene in generale se uno fa il medico. Se hai a che fare con la gente devi saper instaurare delle relazioni. Nel nostro lavoro questa cosa è cruciale. Io dico sempre che nella malattia di Alzheimer è la relazione che cura, più dei farmaci, per cui: la relazione di qualità dà dei risultati di qualità ed è questo anche che dobbiamo cercare di insegnare al familiare.
Che speranze hanno questi malati in futuro?
Allora, stiamo tutti aspettando il farmaco miracoloso, la ricerca è attiva in questo campo, molto attiva. Forse qualcosa succederà, voci dicono entro il 2025. Io sono convinta che se qualcosa succederà, questi farmaci saranno riservati ai malati più giovani e soprattutto ai malati “puri”, quindi in assenza di “comorbilità” (la coesistenza di diverse patologie nello stesso individuo, Nda). Anche noi come geriatri spesso ci troviamo ad avere a che fare con persone con la malattia di Alzheimer ed una miriade di altre malattie, persone sempre più anziane e sempre più compromesse dal punto di vista sanitario. Sono convinta che questi farmaci avranno poca efficacia su questo tipo di paziente. Sono anche convinta che sia necessario far progredire, parallelamente alla ricerca farmacologica, anche la ricerca sui modelli assistenziali, perché è lì che si trova la strada.
Ormai al giorno d’oggi abbiamo capito che convivere con la malattia di Alzheimer si può. Bisogna conviverci bene e per farlo bisogna strutturare un percorso che sia il più possibile di benessere, con la persona e il familiare. Il compito non è solo nostro, ma dell’intera società. Questa cosa si sta un pochino capendo. E quindi accanto alla ricerca farmacologica che speriamo nei prossimi dieci anni dia i suoi frutti, deve esserci per forza una ricerca sui modelli assistenziali. Per cui l’obiettivo secondo me è “vivere bene, nonostante la malattia”, con farmaci che la rallentano, che già abbiamo. A volte vengono utilizzati poco o male perché non si capisce la loro efficacia, ma se utilizzati bene danno grandissimi risultati, perché un conto è vivere con una malattia di grado lieve, un altro è vivere con una malattia di grado moderato o severo.
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