Meno di sei laureati su dieci riescono a trovare un impiego, a tre anni di distanza dal conseguimento del titolo. E non va meglio ai diplomati. Perché? Cerchiamo di scoprirlo insieme
Le difficoltà riscontrate dai giovani italiani nella ricerca di un impiego stabile e ben retribuito sono note a tutti. Il tasso di disoccupazione nazionale – che si attesta già a livelli importanti – colpisce infatti, in maniera allarmante, il segmento rappresentato dalle “giovani leve”. Che, nonostante gli studi, faticano ad entrare nel mondo del lavoro. Cerchiamo di capirne le cause, con l’ausilio di alcune indagini condotte da specialisti ed analisti accreditati. Che hanno snudato le “manchevolezze” più evidenti del nostro Paese, documentando un forte disallineamento tra ciò che offre il sistema formativo e ciò che, invece, richiede il mercato. Il passaggio scuola-lavoro, in Italia, non è quasi mai immediato: vediamo perché.
I dati dell’Eurostat
Partiamo dai dati forniti dall’Eurostat e relativi al 2016. Secondo l’ufficio statistico dell’Unione europea, la percentuale di laureati italiani che ha trovato lavoro, entro 3 anni dal conseguimento del titolo, si attesta al 57,7%. Una quota risicata, se messa a confronto con la media europea (80,7%) e con quella della “prima della classe”, la solita Germania, che svetta al 92,6%. E non è andata meglio ai diplomati: solo il 40,4% di loro ha infatti trovato lavoro nei tre anni successivi all’esame di maturità, mentre nel resto d’Europa, è successo mediamente nel 68,2% dei casi ed in Germania, all’84,6% dei giovani maturati. E c’è di più: stando a quanto documentato dall’Eurostat, a riscontrare le difficoltà maggiori sono stati i diplomati che hanno scelto di puntare su istituti superiori “generalisti” (che forniscono un’istruzione ampia ma non specialistica): solo il 26,2% di loro ha infatti firmato un contratto, nei tre anni successivi all’uscita da scuola. Contro il 43,5% dei diplomati che aveva, invece, scelto di iscriversi ad un istituto tecnico o professionale. Sono dati che non confortano affatto e che confermano, anzi, la strutturale difficoltà del nostro Paese ad oliare il passaggio scuola-lavoro. Peggio di noi, in tutta Europa, fa solo la Grecia.
Le cause del problema
Fin qui la fotografia, che stimola ad andare più a fondo per individuare le ragioni che stanno alla base del “malfunzionamento” italiano. Gli studi a riguardo non mancano: tra i tanti, citiamo quello condotto dalla McKinsey & Company (società internazionale di consulenza manageriale) datato 2014. Secondo gli analisti, il passaggio scuola-lavoro non sortisce, in Italia, gli effetti sperati – in termini di tempo e di gratificazione professionale – per una serie di motivi. Primo tra tutti, la “leggerezza” con cui si sceglie il percorso di studi, che porta molti giovani e giovanissimi a premiare l’istituto o il corso di laurea che appare più rispondente alle loro inclinazioni ed ai loro interessi. Il che non è necessariamente un errore, ma può causare seri problemi. Specie quando si sceglie di puntare su un percorso che non prefigura sbocchi professionali particolarmente promettenti.
E c’è di più: gli estensori dello studio hanno messo in evidenza come molti giovani italiani fatichino ad entrare nel mercato occupazionale per colpa delle mancate competenze. In pratica, non sono in grado di garantire alle aziende che dovrebbero assumerli la professionalità di cui esse vanno alla ricerca. E da non sottostimare, secondo gli analisti della McKinsey and Company, è anche la scarsa efficacia dei canali di supporto alla ricerca di lavoro (Centri per l’impiego et similia), che in Italia funzionerebbero molto poco. La conseguenza? La maggior parte dei giovani che riesce a trovare un’occupazione nel Bel Paese, deve tutto a qualche amico, parente o conoscente che ne “sponsorizza” la candidatura presso un’azienda o un ufficio. Mentre chi non ha contatti o conoscenze deve rassegnarsi a rimanere a casa per un periodo di tempo presumibilmente lungo. Con questi presupposti, non stupisce che il passaggio scuola-lavoro risulti particolarmente impervio. E procuri così scarse soddisfazioni ai giovani.
Il fenomeno dell’over-skilling
A dedicare un approfondimento all’argomento sono stati anche i ricercatori dell’Università Bocconi di Milano che, nel 2016, hanno condotto uno studio dal titolo: “Employment, Skills and Productivity in Italy”. Quello che ne è venuto fuori è che esiste un marcato disallineamento tra la domanda e l’offerta di lavoro. Il che significa (detta in soldoni) che non c’è corrispondenza tra ciò che i ragazzi imparano sui banchi di scuola o all’università e ciò che sono chiamati a fare, quando entrano in azienda. Ma attenzione: lo studio della Bocconi (realizzato col supporto della J.P. Morgan, nell’ambito di un progetto di respiro internazionale), ha evidenziato anche altre cose. E posto l’accento sul fenomeno dell'”over-skilling” che, in Italia, interesserebbe un numero non proprio trascurabile di persone. Di cosa stiamo parlando? Della possibilità che i giovani non trovino un impiego adeguato perché dispongono di troppe competenze. Stando a quanto certificato dai ricercatori, il fenomeno interessa il 19,6% dei laureati. E colpisce, in maniera particolarmente importante, i dottori in materie scientifiche, tecnologiche, ingegneristiche e matematiche che, nel 30% dei casi, non riescono ad esprimersi al massimo del loro potenziale. “Succede perché la struttura produttiva italiana, a causa della concentrazione nei settori tradizionali e della larga diffusione della piccola impresa – hanno spiegato i ricercatori – sembra offrire soprattutto impieghi poco qualificati, che non consentono l’utilizzo e il mantenimento delle competenze”. Col conseguente paradosso che chi studia e si specializza più degli altri può incontrare maggiori difficoltà a trovare un impiego che lo gratifichi e lo valorizzi.
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