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Straining, risarcimento negato se solo il dipendente percepisce la condotta stressogena. La Sentenza

Spetta al dipendente l’onere di provare lo straining e i danni risarcibili in seguito a tale condotta da parte del datore.

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La sentenza n. 991/2021 del Tribunale di Velletri, Sezione Lavoro, ha fatto discutere per le sue conclusioni legate alla qualificazione del danno da straining. Il risarcimento per la condotta stressogena è infatti negato se è solo il dipendente a percepire tale comportamento, poiché in questo caso mancherebbe la prova concreta che la condotta del datore di lavoro sia finalizzata proprio a danneggiare il dipendente.

Cos’è lo straining

straining

Per comprendere come i giudici siano arrivati a tale motivazione, giova rammentare come lo straining sia contraddistinto da una serie di azioni ostili o discriminatorie che il datore di lavoro (o un superiore) ha realizzato nei confronti di un dipendente (o di un subalterno). Le ipotesi sottostanti la qualificazione dello straining sono numerose. Si pensi a un demansionamento che non risulta essere giustificato, o ancora all’isolamento o alla sottrazione degli strumenti di lavoro, e così via. In maniera più specifica e puntuale, ha parlato per la prima volta di straining con derivazioni mediche la sentenza dei Tribunale di Bergamo n. 286/2005, che ha altresì contribuito a discriminare lo straining dal mobbing.

Il primo, infatti, può essere individuato per la particolare aggressività della condotta del datore di lavoro o del superiore, che si manifesta mediante un’azione eclatante e repentina, o nel demansionamento, o ancora nel verificarsi di altri provvedimenti e iniziative che siano finalizzate a isolare il lavoratore, qualificando tale comportamento come idoneo per determinare pregiudizi di salute, professionali, di serenità familiare e, dunque, come tali, in grado di incidere sulla qualità della vita del soggetto che ritiene di subire queste lesioni. L’onere della prova spetta al dipendente.

Il caso

Il caso in esame ha come protagonista una lavoratrice che ricorre in giudizio affermando di avere interrotto la relazione professionale a causa delle condotte mobbizzanti del rappresentante legale della società per cui lavorava. Per la dipendente, tali condotte potrebbero essere qualificate come straining e, di conseguenza, dar diritto al risarcimento del danno.

I giudici del Tribunale di Velletri hanno in tal senso ricordato che nel caso in cui il dipendente domandi un risarcimento dei danni che sono stati subiti in termini di integrità psico-fisica, quale conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi, il giudice di merito deve valutare se la condotta denunciata possa essere ritenuta vessatoria e mortificante per il lavoratore, e se siano ascrivibili alla responsabilità del datore di lavoro, il quale potrebbe essere chiamato a risponderne nei limiti dei pregiudizi che sono a lui imputabili in modo specifico.

Esaminato il caso, i giudici di prime cure sottolineano come non siano stati ritenuti lesivi i comportamenti del datore di lavoro, e come non siano stati dimostrati episodi di vessazione e di mortificazione subiti dal lavoratore, con le condotte stigmatizzate che pertanto non integrano lo straining né possono essere considerate vessatorie o persecutorie, o ancora attuate allo scopo di estromizzare e/o isolare la dipendente che, di fatti, non ha fornito alcuna prova concreta e specifica.

Le testimonianze portate dalla dipendente, inoltre, dimostrano come i comportamenti lamentati dalla dipendente siano neutri, e siano stati percepiti solo dalla ricorrente come atti stressogeni, ma senza potenzialità lesiva. Alla luce di ciò, il ricorso viene respinto con conseguente condanna alle spese processuali.

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