Se fino a qualche tempo fa lo smart working, introdotto a livello normativo nel 2017, era prassi solo di poche (ed evolute) aziende, con l’avvento della pandemia è diventato uno strumento molto utilizzato per difendersi dal contagio, inizialmente una scelta fatta in seno di alcune aziende, poi prassi anche della pubblica amministrazione. Questo dilagare massiccio dello smart working ha creato non pochi problemi sia a livello giuslavoristico sia di gestione delle risorse umane. Partendo dalla definizione contenuta nella Legge n. 81 del 22 maggio 2017 ove per lavoro agile s’intende “una peculiare modalità di svolgimento del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dalla possibilità di svolgere la prestazione lavorativa sia all’interno sia all’esterno dei locali aziendali e in quest’ultimo caso senza avere una postazione fissa […] non è legato a stringenti vincoli d’orario fermo restando i limiti imposti dal CCNL di riferimento”.
Indice
Le caratteristiche dello smart working
La Legge del 2017 aveva previsto un’alternanza tra l’utilizzo dello smart working e il lavoro in sede, la pandemia ha accelerato l’adozione di questa metodologia anche per quelle realtà più scettiche, e durante i periodi di lockdown totale è diventato la modalità prevalente di gestione del lavoro.
Una delle sue principali caratteristiche, è bene ricordarlo, è quella di non essere legato né da vincoli di orario né da vincoli di luogo: tendenzialmente lo smart working alterna momenti di lavoro e momenti di pausa (cd. flessibilità) e ipoteticamente si può svolgere ovunque, ovviamente nel pieno rispetto della privacy aziendale. In questo aspetto lo smart working si distingue dal telelavoro, che prevede una postazione fissa e un orario lavorativo ben definito.
Purtroppo, il lockdown imposto e la successiva suddivisione in zone a colori ha reso impossibile la mobilità regionale, lo scetticismo di alcune aziende (e anche della P.A.) verso la flessibilità lavorativa ha reso lo smart working simile al telelavoro.
In fase di pandemia la ratio della norma si modifica: per la Legge n. 81/2017 l’obiettivo dello smart working era quello di rendere il lavoro più produttivo, diminuire gli spostamenti e aver un miglior equilibrio tra vita lavorativa e vita privata. In tempo di pandemia l’obiettivo principale dello smart working è quello di evitare il più possibile la circolazione delle persone per evitare ulteriori ondate pandemiche. In questo specifico caso potremmo parlare di “lavoro da remoto” vista l’impossibilità di scelta da parte del lavoratore del luogo di lavoro. Il lavoratore deve seguire la logica sulla sicurezza contenuta nel T.U n. 81/2008. Va da sé che in tempo di pandemia il ricorso allo smart working va concepito in chiave di sicurezza ed è da favorire laddove non sia possibile garantire sul posto di lavoro l’utilizzo né dei dispositivi di protezione né il distanziamento sociale.
Un nuovo modo di concepire il lavoro
La pandemia ha gettato le basi per un ripensamento sulle norme standard contenute nella Legge n. 81/2017 e ha facilitato una presa di coscienza, da un lato per il contenimento del costo del lavoro e dall’altro per un nuovo bilanciamento tra esigenze lavorative ed esigenze famigliari. Se fino ad allora il work life balance veniva visto come strumento per favorire le donne lavoratrici oggi, nonostante tutto, viene annoverato nei piani di welfare aziendale, senza distinzione di genere.
La questione che resta dibattuta è: la fattispecie normativa permette al lavoratore in smart working di conciliare la vita lavorativa con quella privata?
In primo luogo, perché ciò avvenga, l’orario lavorativo aziendale dovrebbe essere sostituito da una gestione flessibile dello stesso in accordo con il datore di lavoro sulla base dell’organizzazione aziendale e dell’orario di lavoro settimanale derivante dal CCNL di riferimento. Il dubbio che resta da sciogliere è quello di capire di quanta autonomia gode il lavoratore. Da un punto di vista giuslavoristico le finalità legate alla fruizione del lavoro agile sono legate al raggiungimento di una maggior flessibilità del lavoro subordinato da un lato e dall’esigenza di ottenere un lavoratore più produttivo dall’altro. La legge non prevede che debbano sussistere entrambe le finalità, saranno poi le parti a decidere se accogliere entrambe o una sola delle finalità. Se da una prima lettura sembrerebbe che il lavoro agile sia svincolato a limiti di luogo e di tempo, in realtà non è proprio così in quanto il lavoratore deve fare in modo che la sua prestazione lavorativa si coordini alle esigenze produttive dell’azienda: a tal proposito si parla di autonomia concordata con il datore di lavoro.
La flessibilità lavorativa – Legge n. 81/2017
La flessibilità di cui alla Legge n. 81/2017 non viene definita nel suo significato intrinseco in quanto risulta ancora difficile rilevare la linea di demarcazione tra il tempo “di lavoro” e di “non lavoro”. I rischi correlati ad una non definizione di tale concetto potrebbero comportare nel lavoratore patologie come la dipendenza tecnologica e il burnout.
La mancata definizione di flessibilità del tempo di lavoro può sfociare sia nell’uso distorto del tempo di lavoro sia nella prevaricazione del tempo di lavoro nel tempo privato richiedendo al lavoratore di svolgere le proprie mansioni oltre l’orario previsto. Tale pratica oggi è molto diffusa, complice la tecnologia e la facilità con cui abbiamo accesso alla rete. A protezione del lavoratore il legislatore, nel 2017, ha introdotto l’art. 19 comma 1, che prevede che al lavoratore in modalità smart working debba essere assicurata la disconnessione dagli apparecchi tecnologici, una pausa che va oltre quella prevista dal proprio orario di lavoro utile a garantire concentrazione e raggiungimento degli obiettivi. Alcune aziende più virtuose, attraverso dei programmi HR, hanno avviato delle campagne di comunicazione persuasiva, per chiedere al lavoratore in smart di rispettare le pause, di non fissare riunioni durante la pausa pranzo e al di fuori dell’orario di lavoro.
Il Decreto “Cura Italia” e “Decreto Rilancio”
La normativa speciale in materia è oggi individuabile nei cosiddetti decreti “Cura Italia” e “Rilancio”
Il D.lgs 17 marzo 2020, n. 18, successivamente modificato dalla Legge del 24 aprile 2020, n. 27, all’art. 39, comma 1, inserisce il diritto valido per tutti i lavoratori dipendenti a svolgere la prestazione lavorativa in modalità agile “fino alla cessazione dello stato di emergenza epidemiologica da covid-19” compatibilmente con le mansioni svolte dal lavoratore.
Il D.L del 19 maggio 2020 n. 34 all’art. 90 va incontro ai genitori del settore privato con figli a carico minori di 14 anni prevedendo la possibilità di uno solo dei genitori di usufruire, qualora le mansioni svolte lo consentano, del lavoro in modalità agile. Il lavoro agile si è rivelato uno strumento essenziale per non bloccare la produttività di molte aziende durante il lockdown ma al tempo stesso anziché lavoro “flessibile”, come detto finora, è divenuto un lavoro “domiciliare” molto simile al telelavoro una sorta di lavoro da remoto confinati nella propria abitazione.
L’auspicio è che, nel prossimo futuro, una volta superato questo periodo difficile, le aziende aggiornino i propri regolamenti interni definendo il perimetro dello smart working, con un occhio di riguardo alla flessibilità e al work life balance.
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