Reagire alla disoccupazione o alla precarietà ed alle conseguenze negative che ne derivano, aiuta non solo a creare nuove opportunità (andandosele a cercare), ma anche a prevenire disturbi psicofisici, comportamenti a rischio ed alcune malattie. L’impatto e le ripercussioni della perdita o della mancanza del lavoro sulla salute fisica e mentale delle persone sono notevoli. Gli effetti negativi della disoccupazione e della precarietà sono dimostrati ampiamente da ricerche psicologiche dalle quali emerge una stretta correlazione tra disoccupazione e insorgenza di malattie e disturbi, sia di natura psichica (ansia, depressione, ideazione suicidaria, instabilità psichica) che di natura fisica, (ipertensione, insonnia, malattie cardiovascolari, patologie gastrointestinali, etc.).
Inoltre, le ricerche confermerebbero l’aumento di comportamenti a rischio per la propria salute, legati proprio all’inattività lavorativa che cambia le abitudini ed i ritmi del vivere quotidiano; tra i più frequenti si annoverano : un maggiore consumo di tabacco, di alcool, di sostanze stupefacenti, l’adozione di uno stile di vita sedentario ed un restringimento della vita sociale. In generale, ci si trova a dover affrontare una situazione drammatica che comporta un cambiamento nella vita materiale di chi non trova un’occupazione o di chi l’ha persa. Infatti, i primi pensieri che risuonano pesantemente nella mente sono di natura economica e chiaramente legati al vivere quotidiano: Come farò ad andare avanti? Come faccio a pagare l’affitto? E Il mutuo? Non è tutto. Diversi sono gli aspetti e le conseguenze negative di chi si trova a fare esperienza di tale condizione di malessere e allora, cos’altro significa lavorare oggi? Il concetto di lavoro nel tempo, ha subito infatti , profonde modificazioni.
Il lavoro come identità
In pillole si può affermare che, attualmente, il lavoro non è più inteso soltanto come fonte di guadagno, come mezzo per provvedere alla propria sicurezza economica e/o a quella della propria famiglia, ma è molto di più! La posta in gioco è senza dubbio alta, perché il lavoro occupa un posto centrale nella vita delle persone, perché il lavoro è un ruolo e l’individuo. Quest’ultimo tendenzialmente costruisce una rappresentazione di sé sulla base dei ruoli che gli appartengono, che più sente come propri e dai quali si sviluppano le sue certezze e la sua autostima, elementi chiave per collocarsi ed integrarsi socialmente in modo adeguato. In tal senso, si parla d’identità sociale, cioè del ruolo sociale che si ricopre in base al tipo di occupazione svolta e del significato emozionale e valutativo che deriva da tale appartenenza.
Non avere un lavoro o perdere un lavoro equivale, quindi , a perdere qualcosa di sé.
La precarietà e la perdita di un ruolo attivo a livello sociale, indubbiamente minano fortemente l’autostima e l’affermazione personale. Ciò si verifica senza distinzione alcuna per ogni tipo di lavoro e per ogni categoria professionale: dall’imprenditore, all’operaio che lavora in fabbrica, dal libero professionista, al lavoratore dipendente. L’entità del fenomeno si differenzia principalmente per le caratteristiche personali, quindi le modalità di ognuno di reagire agli eventi avversi o ai problemi e la capacità di definirsi in altri ruoli oltre a quello professionale. Per chiarire meglio il concetto, prendiamo il caso di una persona che perde il lavoro identificando se stesso unicamente o in gran parte nell’incarico che svolge, che si ritiene incapace di ricoprire altri ruoli lavorativi oltre a quello perduto e che dispone anche di una scarsa rete di supporto sociale (amici, familiari, etc.). Egli, con molta probabilità, scivolerà nell’emarginazione, nella solitudine, nell’inerzia, sviluppando con maggiore frequenza dei sintomi depressivi e, conseguentemente, la percezione di non avere alcuna via d’uscita.
Diverso è il caso di un disoccupato che considera il lavoro come una parte importante della sua esistenza ma nel contempo si riconosce anche in altri ruoli (quello di genitore, di coniuge, di figlio, di amico, di nipote, etc. ) e mostra una buona flessibilità al cambiamento, aprendosi per esempio, alla possibilità di reinventarsi. Infatti, cosi facendo, non solo protegge la propria autostima da pensieri disfunzionali del tipo “ Io non valgo nulla… Sono un fallito”, ma affronta la situazione reagendo in modo utile e positivo alle difficoltà.
Reagire alla disoccupazione vuol dire anche farsi aiutare
Pertanto, il suggerimento è quello di “agire”. E quindi reagire alla disoccupazione, come alla precarietà. Demoralizzarsi, lasciarsi prendere dalla passività, dare per forza la colpa a qualcuno per le proprie vicissitudini non aiuta a cambiare la situazione. Se non si fa nulla e si resta tutto il giorno chiusi in casa a piangersi addosso difficilmente le cose miglioreranno! Agire, aiuta a creare nuove opportunità, magari utilizzando i contatti interpersonali , ad aprirsi a nuove possibilità scoprendo di avere abilità e risorse nascoste e mai utilizzate, ad affinare le proprie strategie di risoluzione di un problema rafforzando il proprio senso di autoefficacia.
Dirlo ovviamente è più facile che farlo. Può essere infatti che da soli non ce la si faccia, magari perché è già subentrata una sintomatologia ansiosa e/o depressiva. Non c’è ovviamente nulla di male. Nulla che sia da nascondere o di cui vergognarsi. In questo caso infatti, è consigliabile rivolgersi ad uno psicologo o ad uno psicoterapeuta. L’intervento, in tal caso è focalizzato ad aiutare la persona a ripristinare la fiducia e la stima in se stessi , ad elaborare i vissuti emotivi legati alla situazione come ad esempio la rabbia, la tristezza, la vergogna, a ridefinire i ruoli ricoperti in modo più equilibrato, a far emergere i propri punti di forza, al fine di ritrovare maggiore stabilità psichica, migliorare le relazioni interpersonali e in generale la qualità della vita.
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